di MIMMO GANGEMI - Intanto, la Chiesa ha messo i Santi ai domiciliari. E la Giustizia magari metterà in croce – ma speriamo si limiti a una corona di spine – i giovani portatori colpevoli di un reato che non esiste, se davvero lo hanno commesso il reato che non esiste, ché le immagini e le contrapposte dichiarazioni non danno certezze.
Ipocrisia. Tranne rari casi negli ultimi tempi, mai la Chiesa e la Giustizia si sono accorti dell’inchino, e di altro peggio, praticato in quasi tutti i paesi del reggino. Mute e indifferente fino agli anni ’70, quando era usanza esibire l’orgoglio d’appartenenza, i picciotti a prendere sotto e il capobastone a dirigere – talvolta capitava che la statua venisse sollevata in aria per consentire allo ’ndranghetista di potersi sporgere dal balcone ed esibire davanti alla moltitudine la solennità del gesto di appuntare sulla statua la sua devozione in denaro, per la grazia dell’assoluzione da un reato di cui lo sapevano colpevole pure le galline. Mute e indifferenti anche dopo, quando il fenomeno si è ridotto, per i malavitosi che si sono ritratti nell’ombra, più conveniente ai loro affari sporchi di sangue.
Dal niente assoluto alle esagerazioni di ora. Non condivido che si siano vietate le processioni - averlo fatto mostra pure la sconfitta. Non condivido che ci si accanisca contro quei giovani - se il fatto esiste, i colpevoli sono i tizi, uno, due, che hanno chiesto ai portatori davanti di piegare la ginocchia per far abbassare la statua. Non condivido che questa terra sia sbattuta con tanta ferocia al ludibrio della nazione. E penso allo Stato: per decenni ha deciso zone franche vaste aree di questa provincia, consentendo all’onorata società di occupare gli spazi lasciati liberi, di diventare in qualche misura essa stessa Stato e di raccogliere un consenso che è l’humus dentro cui la malapianta attecchisce e che in parte resiste anche adesso che s’è tra-sformata in ’ndrangheta, più sanguinaria e abietta.
Trovo ingiusto che si ingigantisca il mostro – sempre mostro resta, ma non ha le dimensioni che ci propinano e che magari servono ad accelerare meriti e carriere, né questa terra è la Beirut degli anni più roventi. E non mi piace il sentimento di timore, paura talvolta, che colgo intorno nei confronti della Legge, che qualche demerito lo avrà pure se non si fa apprezzare amica e riparo, il caldo seno della mamma.
Chiaro che ci sono anche le colpe di noi che stiamo nel mezzo, un popolo di vinti che non sa sollevare la testa. Chiaro pure che si deve prendere atto che qui affonda salde radici e svetta l’albero della merda, ce la buttiamo addosso da noi stessi, ce la buttano addosso gli altri.
Quando, due anni fa, in un articolo su La Stampa sollevai il problema dell’inchino, ma scrivendone come di un fenomeno in via di estinzione e comunque generalizzando, senza riferirlo alla mia città, fui equivocato – forse semplicemente non letto bene, o non letto affatto – e subii un linciaggio morale, che sarebbe potuto diventare materiale, per il parroco, in stola, che tuonò contro di me denigratore all’uscita dalla chiesa e per il Sindaco, in fascia, che improvvisò un comizio, dando il peggio di sé, al fermo della processione in piazza, davanti a sei, settemila fedeli al seguito. Acqua passata. Restano però i commenti di allora, annotati su facebook, che consente di fotografarli. Quei commenti danno il senso di una sconfitta da cui è difficile risorgere, se un alto avvocato scrisse “sì, è tutto vero, ma bisognava dirlo all’Italia? I panni sporchi si lavano in famiglia” e se altri professionisti, portatori della statua, s’indignarono, senza capire che, ovunque succeda, a potersi indignare non sono gli inchinatori ma la civiltà di un popolo offesa dall’inchino.
Tornando a Oppido e al presunto inchino, un risultato lo si è comunque ottenuto: è finito lo scempio, nessuno oserà farne più. E questo va bene, purché però non diventino agnelli sacrificali quei giovani ingenui e dalle facce pulite che ho colto nelle immagini.
*Lo scrittore Mimmo Gangemi a Tabularasa