Cari calabresi, l'attacco a Bruneau per i Bronzi è vagamente omofobo. CARBONE

Cari calabresi, l'attacco a Bruneau per i Bronzi è vagamente omofobo. CARBONE

bronzidi Marco Benoît Carbone* - Da reggino fuori sede, e da osservatore dei modi in cui i calabresi utilizzano il proprio patrimonio per definire la propria identità, ho seguito attentamente la polemica sui bronzi “deturpati” da Bruneau. E ho potuto constatare, purtroppo, che la stragrande maggioranza dei commenti di giornalisti, politici e commentatori ha esibito una sorta di indignata, unanime condanna. Una simile reazione mi sembra ingenua e spropositata rispetto alla presunta gravità dell’atto. Mi sembra anche che tradisca un atteggiamento vagamente omofobo, e che l’idea di patrimonio culturale che ne è alla base ricordi più il fondamentalismo religioso che qualunque valore umanistico.

Ciò che ritengo sorprendente è lo sgomento generato dall’episodio. Alcuni hanno parlato di un episodio “gravissimo”, arrivando a chiedere un'inchiesta della Procura, condannando scatti “shock e vergognosi” e sostenendo che le statue “sono state di fatto oltraggiate e deturpate". Simili condanne si trovano sulle pagine di quotidiani, cartacei e online, di Reggio e provincia. Una reazione così scomposta ricorda quasi quella che seguì a Innocence of Muslims, il film su Maometto che scatenò le ire dei fondamentalisti. Le condanne di Bruneau sono certo più innocue, ma funzionano in un modo simile: trasformano un gesto tutto sommato banale di sovversione artistica in un irreparabile attentato all’integrità morale delle opere e della Regione tutta.

Ma la cosa più preoccupante è un’altra. Visto che le foto di Bruneau esibiscono un’estetica queer e camp, l’indignazione è soprattutto per la lesa mascolinità dei Bronzi. L’aggettivo più usato è ‘kitsch’, perché non si ha il coraggio di ammetterlo. Ma la realtà è che questa reazione è essenzialmente omofoba. E pensare che l’omofobia era probabilmente, al tempo dei bronzi, un disturbo di massa meno diffuso di oggi. D’altro canto, i corpi dei guerrieri si prestano perfettamente a un piacere e uno sguardo spiccatamente omoerotici. Ma qui si tratterebbe di andare dall’arte vascolare greca ai geni del Rinascimento, di trovare giustificazioni per qualcosa che non ne richiede alcuna, o di banalizzare questioni etiche ed estetiche che meritano ben altre attenzioni.

Fin qui ciò che sorprende e preoccupa. Ma ciò che è svilente è la reazione di questo o quel giornalista, politico o studioso che non esita a fomentare il sentimento contro i “barbari” per saltare sul carro dei patrioti. È abbastanza prevedibile, visto che i bronzi sono tra i simboli chiave dell’eternamente discussa – ma mai davvero perseguita – “occasione di rinascita” di una Calabria strangolata, lontana dal suo straordinario potenziale. Ma è ugualmente deprimente vedere che per le nostre classi dirigenti il patrimonio artistico è solo un feticcio identitario da cavalcare. Ed è per questo che il colpo di Bruneau è andato bene a segno: colpisce il nervo scoperto di un atteggiamento in base al quale un’opera d’arte non è un bene di tutti, ma una sorta di reliquia religiosa. La cui difesa dagli attacchi esterni, reali o presunti, non fa fatica a invasare folle di avatar.

L’idea che i bronzi siano vilipesi dall’omaggio irriverente di un artista è il frutto di un culto vacuo del localismo e del passato. I bronzi, il mito, la Megale Hellas non sono solo di Reggio: sono un patrimonio dell’umanità. Questi cimeli devono restare qui. Ma se diventassero intoccabili come dei testi sacri sarebbero dei simboli irrigiditi, chiusi, sterili. La loro presunta “deturpazione” è una scusa per sfogare un modello isterico di identità culturale. Sfugge ai predicatori del decoro che un’opera d’arte è tanto più bella e forte quanto più ispira la sua rilettura e riscrittura (nel rispetto per la sua integrità materiale) e ispira la parodia. Non è solo una questione di visibilità. Il boa queer di Bruneau desacralizza i bronzi istituzionalizzati e li porta al servizio di questioni importanti, su cui l’Italia è in ritardo: le ideologie di genere, l’omofobia e la transfobia, i diritti civili. Non poteva capitare in un momento migliore per una città che ha da poco ospitato il suo primo Gay Pride, lottando contro un retroterra di gelosa sospettosità e di omologazione culturale che è lo stesso humus di mafie, corruzione e degrado.

Difficilmente si potrebbe pensare a un qualcosa di più assurdo che istigare la Procura a perseguire Bruneau o chi sarebbe colpevole di averlo lasciato fare. Simili corbellerie sono molto gravi e demagogiche: fanno leva sui sentimenti di più cieca indignazione dei passivi interlocutori che cedono al suo fascino. In un paese che ha un rapporto pigro e parassitario con il suo patrimonio, e in cui siti e capolavori inestimabili decadono tra la vanagloria nostalgica e gelosa di qualche élite e l’incuria degli spremitori di risorse pubbliche, sono tantissimi gli improvvisati vati della purezza dell’arte che condannano Bruneau. È una critica mal posta. L’obiettivo di Bruneau è un incitamento alla differenza, alla pluralità e al dissenso – e non quello di abbellire o deturpare dei capolavori.

Non è mancato chi ha strumentalizzato la vicenda, per lamentare che al gigantesco mangiasoldi Expo, dove si vorrebbero portare i Bronzi, questa vicenda non sarebbe mai accaduta. La soprintendente Bonomi individua bene questi interessi, ma perde un’occasione quando dichiara che le foto sono “uno spiacevole incidente”. Non coglie ancora, come tanti calabresi, una chance per guardare al nostro patrimonio fuori da cornici vetuste e ottuse. Ma è questa una città che ha fatto ben altri errori. Tollerava male anche chi avrebbe usato il volto di Medusa come una rinnovata icona pop in un impero della moda e della bellezza. Nonostante tutto, il gesto di Bruneau è il miglior segnale della salute di queste altissime opere d’arte, di una loro riconnessione con tutt*, in un luogo che ben altri soggetti e simboli di deturpazione ha ammesso nei suoi palazzi e posto sui suoi chilometri più belli.


*Marco Benoît Carbone è nato a Reggio Calabria ed è un dottorando alla University College London, dove si occupa di studi di ricezione dell’antichità.