di ANTONIO CALABRÒ - Il ragionamento è semplice: la nostra è una città di provincia, mezza strangolata da una cattiva fama, appesantita da anni di vuoto della politica, e da un conservatorismo baldanzoso e scioccamente orgoglioso della cultura. Un città incapace di realizzare il senso virtuoso della comunità, dal quale poi decolla l’idea di appartenenza concreta, con tanto di autocritica e misurato giudizio sul proprio posto nel mondo.
Reggio Calabria è come la nave di Ulisse in balia dei venti. Chi soffia più forte la spinge verso una direzione, ma poco dopo viene surclassato da chi soffia in senso opposto e così la posizione è sempre identica e sempre più drammatica. La querelle dei Bronzi all’Expo infiamma i singoli individui, ciascuno con motivazioni legittime e coerenti. Ognuno con il proprio punto di vista, e tutti rispettabili.
Io ho il mio. In questa società che sta per dare a garanzia del debito i beni artistici, dimentichiamoci i valori “invisibili” delle opere, dimentichiamo l’Aura mistica che li circonda, dimentichiamo il loro simbolismo, la loro capacità di emozionare, di far riflettere, d’infiammare i cuori, di trasportare nel tempo e nello spazio. Sono tutti concetti superati. Oggi l’arte si valuta in base alla sua capacità di rendere un profitto. Cari Bronzi, rassegnatevi. Avete valore solo perché, nel mercato delle opere, avete un potenziale da primi della classe e potreste fare o disfare la fortuna di un buon Broker di Wall Street.
Ma, per rendere, ogni opera deve essere inserita nel contesto migliore, in modo che la resa si estenda creando un indotto. Non è soltanto l’elemento artistico: ma ci vuole l’accoglienza, la comodità, i servizi, l’apparato turistico. Qui da noi i Bronzi sono due statue nel deserto.
Come se nella Reggina venisse a giocare Ronaldo. Quanto potrebbe rendere? Un decimo di quanto rende con il Real Madrid. Accettando questa tesi, i Bronzi a Reggio Calabria sono sprecati.
Però accettando questa tesi, si potrebbe anche fare un ragionamento diverso. Profitto per profitto, tutto è lecito, abbiamo detto. Bene. Vogliono i bronzi? Che paghino.
Diamo i Bronzi all’Expo, in cambio dell’azzeramento del debito della città. Con effetto immediato. E con lo stanziamento di un miliardo di euro per ripulire questa fogna che sta diventando la nostra provincia, abbandonata all’incuria e all’anarchia primitiva. Che paghino. Due bronzi, due miliardi. Anche Paolo Rossi giocava nel Vicenza, e per averlo la Juventus sborsò una camionata di soldi.
Due miliardi, e vi diamo i bronzi. Alla fine dei conti, tutto è mercato. Aggiungetene un altro, e vi cediamo anche il museo intero, tanto qui è chiuso. Mettete sul piatto altri miliardi, e vi potete prendere anche il Castello Aragonese, e magari trasformarlo in un casinò alla moda.
Ormai non conta più niente. Tutto, in Calabria, è ridotto in barzelletta, svilito, affrontato con la superficialità dei tamarri, degli urlatori di professione, degli sgherri rinnegati e dei traditori silenziosi. Tutto è passerella per dimostrare al mondo intero qualcosa, e qui è facile venire ad urlare da fuori e indignarsi e recitare parti coraggiose da sognatori idealisti. Diventa facile parlare male di Reggio, di qualsiasi cosa abbia a che fare con Reggio. Siamo stritolati in un sistema di verità e bugie, entrambi a danno nostro. Siamo confusi dalla menzogna e spossati dalla bugia. Il tempo scivola in diatribe e tutto è immobile, i conflitti sono falsi e non servono a nulla, l’indignazione è come la pillola, che con un po’ di zucchero va giù.
I Bronzi non sono nostri. Il mondo intero non è di nessuno. Ma nel momento in cui si rivendica una qualsiasi forma di proprietà, o di interesse, o di convenienza, i bronzi allora hanno un padrone. Come lo ha qualsiasi cosa sotto il sole, oggi. Facciamoceli pagare a buon prezzo. Vendiamoli, tanto abbiamo già venduto la nostra storia.