di VITTORIO DANIELE* - L’Italia è un’economia duale, con due mercati del lavoro. Storicamente, quello del Sud ha perfomance e “caratteristiche” assai diverse da quello del Nord. Tra le regioni meridionali, poi, la Calabria è quella con maggiori differenze rispetto al resto del Paese e più acute criticità.
A causa della struttura industriale poco sviluppata, l’economia e la società calabresi dipendono fortemente dal settore pubblico. La spesa pubblica rappresenta il 37 per cento del Pil regionale. Un valore assai elevato, se si considera che nel Centro-Nord la quota è di appena il 17 per cento. Il settore pubblico è altrettanto importante sotto il profilo occupazionale: impiega il 23,5 per cento degli addetti calabresi, a fronte del 14 della media italiana. Dal pubblico dipendono, direttamente o indirettamente, tutta una serie di attività: fornitura di beni e servizi, intermediazione, consulenza, ma anche sussidi. Un così rilevante ruolo economico e occupazionale è il riflesso dell’ipotrofia, ovvero del rachitismo, dell’economia di mercato. Da questa debolezza strutturale traggono origine “distorsioni” sociali e politiche.
In un’economia come quella calabrese, basata sulla “redistribuzione” più che sulla produzione di risorse, dipendente dai flussi di spesa pubblica e in cui un impiego pubblico, anche precario, o un sussidio rappresentano l’aspirazione di una parte ampia della popolazione, la politica con le sue decisioni, con le sue scelte, con i suoi comportamenti ha un peso (e un potere) notevole e, spesso, condizionante.
Oltre ad essere poco sviluppato, il tessuto produttivo della Calabria è “polverizzato”, cioè composto quasi totalmente da microimprese. Il 98,5 per cento delle unità locali delle imprese ha meno di 15 addetti. Nel complesso, le imprese calabresi danno lavoro a circa 160mila dipendenti. Quelle con oltre 15 addetti ne occupano 73.000. Le cifre possono essere ingannevoli. La definizione statistica di “impresa” comprende, infatti, anche le aziende speciali di comuni, province o regioni. Un aspetto non trascurabile in Calabria. Si pensi alle migliaia di lavoratori del comparto agricolo e forestale (il censimento del 2001 ne contava 8.700!) impiegati nelle agenzie della Regione Calabria e che, statisticamente, risultano occupati in imprese. Si tratta, come in altri casi, di imprese particolari che dipendono dal settore pubblico.
Gli indicatori del mercato del lavoro, è ovvio, riflettono le performance economiche. Qui le differenze con il resto del Paese, con le regioni più sviluppate, sono stridenti. Il tasso di disoccupazione, innanzitutto, che in Calabria è strutturalmente maggiore di quello medio nazionale e meridionale. Attualmente, in Italia è del 12,3 per cento, in Calabria sfiora il 25: un lavoratore su quattro, ufficialmente, è senza impiego! Dal 2004 ad oggi la disoccupazione si è collocata, mediamente, su valori doppi di quello nazionale. Un’economia debole ha una modesta capacità di creare occupazione. In Calabria, solo il 37,8 per cento della forza lavoro è occupata, a fronte del 64,5 del Nord. Per le donne il dato è drammatico: il tasso di occupazione è di appena il 28 per cento.
La difficoltà di trovare un lavoro alimenta l’emigrazione o, molto peggio, conduce allo sconforto, alla perdita di speranza, al ripiegamento, alla marginalizzazione. Sono 129.500 i giovani calabresi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (Neet). La mancanza di lavoro e il rischio elevatissimo, per chi ha un impiego, della disoccupazione, distorcono i rapporti di lavoro, espongono al rischio di sfruttamento, portano ad accettare paghe ridotte, assenza di tutele. Il tasso di irregolarità sul lavoro raggiunge in Calabria il 28,5 per cento a fronte del 9 del Centro-Nord. Si capisce: è la mancanza di opportunità a far sì che un impiego in nero, magari saltuario, o un salario inferiore a quello riportato sulla busta-paga, diventino la risorsa di tante, troppe famiglie calabresi.
Dietro le cifre, naturalmente, le persone. Situazioni individuali e familiari spesso drammatiche. Le sconfortanti cifre della disoccupazione, della precarietà, dell’incertezza, rendono, seppur non compiutamente, la profondità dei divari che esistono in Italia. Si discute, in questi giorni, delle nuove regole per il mercato del lavoro. Le regole certamente contano. Ma in un’economia che non cresce, e duale come quella italiana, assai difficilmente bastano per creare lavoro.
*UniCz