I CALABRESI. Ciccio Baffa. TRIPODI

I CALABRESI. Ciccio Baffa. TRIPODI

tdi GIUSEPPE TRIPODI - BAFFA Ciccio, (Melito PS 1920 - 1998), di Peppino Toscano Testajanca e di Peppina Focà; nacque, fu battezzato, si sposò, visse e mori al Paese Vecchio.

 

Il soprannome era frutto di un errore di pronuncia, uno scambio di vocale avrebbero detto gli enigmisti: bambino di pochi anni aveva intravisto una rana, buffa in dialetto, ed erroneamente aveva esclamato: "Figghioli! Figglioli! Ccà nc'esti na baffa!".

Quella vocale sbagliata (baffa al posto di buffa), detta in presenza d'u maru Zi Ciccu famoso coniatore di 'ngiurie, era stata sufficiente a marchiare lui, i suoi figli ed anche la nipote.

Oltre al battesimo cattolico Ciccio Baffa poteva vantare anche quello dell'onorata società in un luogo (il locàli secondo il gergo mafioso) che era, senza offesa per la Chiesa Immacolata di Mèlito dove aveva ricevuto il primo, di gran lunga più prestigioso: S. Stefano di Aspromonte.

Il sacro crisma stefanito gli fu particolarmente utile durante le peregrinazioni di mulattiere tra la Valle del Tuccio e la Piana di Gioia Tauro.

Salvo le brevi assenze per le fiere e per gli altri viaggi col mulo per le impervie ragioni aspro montane, Baffa, come Socrate da Atene, si era allontanato solo per la guerra: in Jugoslavia fino all’8 settembre 1943 con altri 650.000 soldati italiani abbandonati dai comandi, Sbandati, disorientati e morti di fame.

Si orientavano con il sole cercavano di avvicinarsi all’Adriatico, che molti di loro pensavano fosse largo come un fiume da guadare a nuoto.

Baffa, dopo settimane di viaggio, vide il mare e, chissà per quale ragione, si sentì più sicuro. Prese a camminare sulla strada e, imprudenza quasi fatale si imbatté in un convoglio di tedeschi che procedevano in verso contrario.

Lo malmenarono e, tra sghignazzi e cachinni, lo ammanettarono e gli fecero fare in due giorni il cammino inverso a quello che aveva percorso in quasi un mese.

Morto di fame e peggio di sete, le braccia legate che non concedevano degno appoggio al corpo sbattuto a destra e a manca dai tornanti e dalle buche della strada, i compagni di viaggio che mangiavano gallette e carne in scatola e bevevano ignote pozioni da capienti borracce.

Fu salvato da un attacco degli slavi che, sul far della seconda sera di viaggio e più minacciosi di una tribù apache ( come per gli insulti tedeschi ricordava sprazzi di voci come  Cuccumenamài zarna cola sfe kaputt!), fecero strage dei teutonici e chi non era morto nello scontro fu prontamente finito con un colpo alla tempia dai circospetti ma feroci vincitori.

Ciccio, rimasto per tutto il tempo dello scontro appiattito ed impicciolito sul fondo del cassone del camion, se avesse potuto si sarebbe volentieri trasformato in formica, in topo, in rospo, in buffa o anche in baffa purché la metamorfosi lo avesse sottratto a quella carneficina.

Risparmiato dai serbi, li seguì per qualche giorno ma poi, a un disertore piemontese unitosi ai partigiani prima dell’otto settembre, spiegò che gli sarebbe dispiaciuto morire per Gambastorta e del Duce ma che più paradossale sarebbe stato il cadere per la patria degli slavi.

L’interlocutore gli parlò e sparlò di fascismo e di guerra, di padroni e schiavi che dovevano scomparire e di oppressi che dovevano governare il mondo. Alla fine quelle certezze ideali furono vinte dalle perplessità taciturne di Baffa, che ripartì verso Occidente.

Niente strade (Un cazzu chi iva cchiù strati strati! Undi vidìva strati sartàva comu nu ceddu!), giunse in un porto adriatico dal nome irripetibile ed irripetuto e, dopo alcuni giorni, non si ricordava neppure come, si era imbarcato su un peschereccio pugliese che lo portò ad un miglio dal porto di Otranto.

Qui, indotto dal comandante che non voleva grane, si tuffò in mare, raggiunse la terraferma e, come Ulisse sulla spiaggia dei Feaci, e fu vestito con non griffati panni borghesi offertigli da contadini che gli sembravano parlare calabrese come lui.

Tornò a Mèlito in una bella giornata ottobrarica, riprese a fare il mulattiere, sposò Catòla che era figlia du maru Zi Menu u Parrinu e sorella di Turiolèddu che, a sua volta, aveva sposato la sorella di Ciccio Baffa, a mara za Caterina. Ebbe tre figli, li crebbe bene facendo il pane, combatté malattie familiari che richiesero lunghi soggiorni a Roma, tornò a Mèlito alleggerito di diversi milioni e neanche tanto soddisfatto di come erano andate le cose; povero e pazzo gli veniva da dire.

Bevve sempre in abbondanza, giocando a patrùni e sutta da Turiolèddu ed anche in altre bettole e putìche (ma da quando aveva tagliato la faccia a Sardìna non bevve più il giorno di S. Martino), mangiò quando c'era da mangiare e quando c'era da lavorare non si tirò mai indietro.

Saggiamente non volle che i figli avessero a che fare con la ndràngheta che lui peraltro non riconosceva più dopo tutti gli omicidi degli anni settanta e ottanta.

Aspettò vanamente che il crimine di Polsi mettesse prima o poi ordine nel caos delle guerre di mafia che lui non comprendeva.

Ma Polsi, che avrebbe dovuto porre fine alle stragi cacciando i mercenari dal tempio dell’onorata società, si comportò come Baffone che doveva venire per alleviare le sofferenze degli operai occidentali sotto il tallone di ferro del capitalismo; entrambi non si fecero vedere durante la vita di Baffa e noi li stiamo ancora aspettando.

Poi si ammalò e morì in poco tempo, prima di Catòla che lo avrebbe seguito di qualche mese. Chi lo assisteva si accorse che la fine era vicina quando lui, che era stato pudicissimo in tutta la sua vita, aveva cominciato a manifestare indifferenza a scoprire le parti intime per le abluzioni quotidiane; era come se quel corpo e quelle carni ormai non gli appartenessero più e potessero perciò essere esposte agli occhi dei suoi familiari senza che lui se ne occupasse più di tanto.

Prima della dipartita profuse ai figli e ai parenti, assieme alla benedizione, consigli su come dovessero far scendere la bara dalla stretta scala di casa senza strapazzare troppo i trenta chili del suo ormai povero e martoriato corpo.