di LUCA SERIANNI* - Questo romanzo di Giuseppe Tripodi, Cola Ierofani. Amori e politica nel Secolo Breve, si presenta in apparenza come il classico romanzo di tradizione ottocentesca: tutto incentrato sulla vita di un protagonista, sullo sfondo di vicende politiche ben individuate, in particolare degli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo. Ma la realtà è diversa. Intanto il tono epico è continuamente contraddetto dalla vena ironica del narratore, che si esaspera quando si tratta di rappresentare la straripante vitalità del suo eroe: passione politica ma soprattutto sessualità compulsiva (e a entrambi questi aspetti si collega il forte anticlericalismo, o meglio l'esplicita antireligiosità). E non è certo un caso che la vicenda si concluda, per una sorta di laicissima nemesi, con una malattia mortale di Cola (un carcinoma prostatico), il cui eventuale superamento per via chirurgica comporterebbe l'impotenza, e dunque «la pena del pene» (401).
Se Cola e i suoi familiari sono personaggi di fantasia, l'ambientazione è ricalcata sulla realtà calabrese del tempo; e qualche volta ci si spinge anche alla menzione di figure reali come il latinista Cupaiolo (per la storia: Cupaiuolo), effettivamente docente in quegli anni nell'Università di Messina.
Ma dove Tripodi si distacca in modo netto dalla tradizione è nell'uso della lingua; in particolare nella polifonia dei registri. Il livello diegetico è normalmente sostenuto (e si parli pure di una ricercatezza lessicale declinata come controcanto ironico): così a una nota immagine di Cecco Angiolieri si allude come al «trittico di perdizione di un illustre poeta senese rubricato alle origini della letteratura del nostro paese» (7; si noti rubricato che, in un contesto del genere, appartiene agli stilemi tipici del critico letterario post-continiano); le assemblee dei militanti comunisti, in ambienti saturi del fumo delle sigarette, sono «caliginose riunioni» (89); a proposito della scarsa presenza di scritte murali sui muri di Peripoli, il paese immaginario in cui si svolge la vicenda, si evoca la difficoltà che sarebbe derivata a «un antropologo godeleriano, se avesse voluto censire la grafica estemporanea peripolana per trarre un saggio da spendere poi sul mercato accademico» (259; la dotta allusione è all'antropologo marxista Maurice Godelier). Talvolta l'ironia si fa graffiante. Quando il monsignore direttore del seminario, intento all'ufficio di confessore, è definito «Caronte consumato da decenni di esercizio» (50), viene maliziosamente ribaltata la direzione del tragitto: non verso la salvezza promessa dal Sacramento della penitenza, bensì verso l'Inferno.
Accanto all'italiano colto il dialetto. Franchi inserti in calabrese punteggiano spesso le battute messe in bocca ai personaggi: «Senti figghiu meu! Eu non sàcciu chi vo' fari!» (46) o emergono nei detti proverbiali che condensano il sapere popolare, come quello che apre il romanzo: «i sordi d'u parrucchiàno s'i futti u sciampagnuni» (la glossa del narratore è indispensabile: «i soldi di chi fa una vita costumata e accorta [da parrocchia appunto] accumulando ricchezze, se li frega il prodigo che, per antonomasia, offre e consuma champagne a destra e a manca»). Ma singoli dialettismi o regionalismi affiorano anche nella lingua del narratore o nelle battute in italiano dei personaggi (questa volta senza glossa, confidando nella trasparenza del contesto, alla maniera di Camilleri): «Picchiavano i mortimali, soprattutto schiaffi, inaspettatamente e con violenza» (48), «padre Gino si era scavugliato il piede» (52), «ora che abbiamo neutralizzato la sua bava inzargarita osa persino difendere quel cinico cafone capo della mafia di Pietro e Paolo» (75; parla il comunista Brodo), «mentre smiriava Gianna, qualche anno più grande di Lara» (97), «miopi ed esorbitanti occhi garillosi schermati da biancastri culi di bottiglia» (403).
In una linea espressiva che è dichiaratamente lontana dal mimetismo non mancano veri e propri inserti creativi, nati dall'occasionale adattamento di francesismi («immerso in lunghe e solitarie promenate lungomarine» 64) o dall'adibizione di parole latine e semilatine per suggerire il senso di una straripante adunata di parenti («Un esercito di padri e fratelli, patrui e avuncoli, fratres patrueles e consobrini, vicini e sangiovanni di vario genere e di varia gradazione» 90), fino all'invenzione di occasionali neologismi o di beffarde storpiature («Alla fine tutti, servireilpollisti e shabisti, morti di fame ma non disidratati, vennero liberati alle dieci di sera» 265; i riferimenti sono al gruppo di Servire il popolo e al personaggio della militante milanese Anna Shabah).
Giuseppe Tripodi ha creato col suo Cola Ierofani un romanzo di notevole maturità espressiva, nel quale la ricercata sperimentazione linguistica non va a detrimento della leggibilità.
*Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana all’Università di Roma La Sapienza. È accademico dei Lincei e della Crusca.