Le radici di Mimmo Martino. Per non dimenticare. CATANZARITI

Le radici di Mimmo Martino. Per non dimenticare. CATANZARITI

 mttnz     DOMENICO CATANZARITI* - (rep) Anche le dolci e limpide arie che si levano in alcuni giorni radiosi di sole sullo Stretto sembrano volere prima o poi dissolversi. Come tutte le umane bellezze, brillano per un grande e lungo istante e poi si risolvono, se possibile, nel ricordo, proprio come, dicevo, una effimera aria radiosa di Fata Morgana. Grandi poeti come Rilke hanno per sempre cantato questa effimera bellezza salvatrice di cui è capace la fibra creativa della creatura.

Avevo conosciuto Mimmo Martino nei tempi ormai lontani dell’adolescenza. Avevamo avuto l’idea come accade, anche oggi, a tanti ragazzi, di mettere in piedi un gruppo musicale, “calabrese però” e che potesse avere un contenuto di tipo sociale al suo fondo (non vi erano precedenti, così ci appariva), come suggerito da quegli anni di impegno sociale e politico, in cui emergeva timidamente la stagione dei cantautori (altra storia peraltro).

Sulla scia delle letture intense dell’indimenticato maestro Ernesto De Martino (che oggi vive una stagione di revival culturale anche commovente), circolava allora un grande libro, fresco di stampa (1974), uno dei libri che più ha segnato la mia formazione culturale, “Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud”, scritto da un grande intellettuale calabrese, il prof. Luigi Lombardi Satriani, al cui merito culturale la Calabria non riuscirà mai a dedicare sufficiente riconoscimento.

Era una profonda ricerca etno-antropologica sulla cultura contadina del Sud; vi scoprii testi di quella tradizione stupendi, veri incanti poetici, idilli tra madre e figlio, elegie collettive, canti di lamento e di protesta sociali. “Un Servu e un Cristu”, grandioso duetto in cui un crocefisso e un servo contendono sulle scelte migliori da fare di fronte alla fame e all’ asservimento sociale, e in cui “Cristu” consiglia di fare una scelta di lotta, “perchì forsi chi hai ciunchi li vrazza ? o ‘nchiuvati commu a ‘mmia ? cu voli la giustizia si la fazza…eu non sarìa supra ‘sta cruciazza, s’ avissi fattu quanto dicu a ‘ttia…”, affinché cioè non accada ancora una volta di finire in croce senza aver almeno provato a cambiare i destini sociali (è evidente che non è il senso teologico dell’ amore che vince la morte in croce che interessa questo stupendo canto seicentesco meridionale, ma la indicazione di antagonismo sociale potente, la contestazione antica delle condizioni di asservimento e colonizzazione, che affonda nei movimenti pauperistici dell’ epoca). Ancora “…veninci sonnu ‘nta sta naca d’oru…”, un augurio quasi “religioso” che sembrava provenire da oggetti, monili, figure, anime affinché potesse scendere il sonno sul proprio bimbo, detto con parole semplici, di amore struggente, antichissime, rivolte ad un neonato che evidentemente non intendeva ancora riposare.

Ed altre decine di filastrocche, detti, poesie, canti… Un patrimonio di verità sedimentate, un tesoro composito di antagonismo e di rassegnazione insieme, come è il conglomerato ereditario della cultura contadina meridionale e che Satriani indicava come l’“inconscio” collettivo simbolico della cultura popolare meridionale contemporanea. Avevo abbozzato in poche settimane intense di concentrazione la musica per chitarra che sembrava poter nascere da quelle antichissime parole, da quei versi popolari (registrandola in un mangianastri), per 4 o 5 dei testi di tradizione più significativi, rifiltrando anche arie ascoltate dalla Nuova compagnia di canto popolare (unica allora nel suo genere) o del sempre grande cantastorie Otello Profazio; quindi li portai in fretta a Mimmo Martino, perché li valutasse, al circolo culturale di Pellaro dove ci vedevamo tutti i pomeriggi per suonare assieme. Continuammo allora per settimane a riascoltare quei testi, e per rielaborare quelle musiche… insieme a Gianpaolo Chilà, Filippo Salsone, Emilio Roccabruna, Mimmo Micieli ed altri.

Mimmo, con i suoi grandi occhi, intelligenti e sognanti, comprese all’ istante il potenziale culturale contenutovi. Poteva nascere davvero un’idea potente: rimettere in circolazione, dopo decenni e secoli, quelle idee e quei sentimenti, mai spenti, di cultura della tradizione, carichi nel loro miscuglio di gioia e lamento, di sofferenza ma anche di “contestazione”, certo commisti, ma tutti compresenti. Tante indimenticabili storie personali dal 1974 in poi, fino al festival nazionale della musica popolare di Firenze di fine anni ‘70.

Poi il GRPTC, il gruppo di ricerca popolare “Tommaso Campanella” (dall’ omonimo nome del circolo culturale di Pellaro), si estinse; eppure Mimmo Martino mantenne viva quella scommessa culturale e musicale con una determinazione ed una intelligenza che erano radicate nella sua originalissima sensibilità e nella dolcezza profonda ma naturale della sua voce, ricca di note, le più varie, le più affettuose, le più tenere, le più intense. Ha fondato, poi, ho saputo, diversi gruppi musicali in continuità e con diverse trasformazioni fino al gruppo importantissimo dei Mattanza. Da allora, a quelle prime 10 arie, si sono aggiunti tanti altri canti e altre musiche, con testi anche scritti da lui e dal suo gruppo, credo, perché non ho più notizie dirette da molti anni. Ma l’ho ascoltato e seguito negli anni, nelle piazze, anche via web.

Conservo il rammarico di non averci parlato poi più, come se questo fosse il modo per non toccare quella sua determinazione, per non alterarne la parabola e il percorso ormai maturi. E il percorso è stato lungo, intenso, ricco, grande. Dopo questa dolorosa scomparsa, Mimmo non può essere dimenticato. Bisognerà dedicargli un luogo di ricerca, di lavoro: un centro di elaborazione. Così bisognerà non dimenticarne il valore, la sua determinazione, la sua poesia, i suoi occhi grandi e intelligenti, tanto più grandi del suo corpo, la sua indimenticabile voce che ti accompagnava con i suoi alti e i suoi bassi, come in un abbraccio fraterno lungo, in un racconto antico avvolgente e più vero di qualsiasi realtà. Come si potrà dimenticare un grande reggino?

Quelle arie, quel lavoro di scavo e insieme creativo, non dovranno finire con il fiato delle sue note e delle sue parole. Mimmo è ancora più vivo, bisogna solo riuscire a capire, oggi, che lo è veramente, anche se non sarà facile. Deve prosperare il suo sogno di una Calabria che possa comprendere che le proprie radici culturali affondano in una antica cultura secolare, in un ricco mondo etno-antropologico, in quella sapienza di vita, e ricostruire per i giovani le radici di una immemorabile appartenenza, forse reinventata, certo rifiltrata e rinnovata, come accade sempre in ogni opera di traduzione, che poi è anche un “tradere”, un tradire nel momento stesso del tramandare, un innovare consegnando. Mi piacerebbe che questo fosse; penso anzi che vi sarà un luogo di lavoro per ricordarlo, di certo, per stare ancora in ascolto tutti insieme, attorno a questo cantore, a questo ricercatore, a questo poeta, a questo intellettuale calabrese, intorno a questo amico di noi tutti, per sempre (questa storia lontana volevo ora, caro Mimmo, caro grande cantastorie, ricordarti, per un’ammirazione che, perdonami, ho avuto da sempre il timore di manifestarti).

*Domenico Catanzariti, del GRPTC (Rovereto; TN – medico cardiologo)