di ORIANA SCHEMBARI -
Un dramma musicale, una pantomima dell’orrore, una macabra danza. Lo spettacolo “El triangul azul”, proposto in prima nazionale dal Globo Teatro Festival al Teatro “Francesco Cilea” di Reggio Calabria, riesce nel difficile compito di raccontare l’universo concentrazionario dei campi di sterminio nazisti con i toni di un grottesco cabaret. Una ironia burlesca che non alleggerisce e non stempera, ma attraversa tutta interamente la verità storica con il suo carico di violenza e raccapriccio, senza tralasciare nulla.
La storia semisconosciuta degli internati spagnoli, dissidenti politici del regime franchista, rifugiatisi in Francia e da qui ceduti dal Governo collaborazionista di Vichy all’invasore tedesco, viene raccontata dalla pièce di Laila Ripoll e Mariano Llorente, straordinario successo spagnolo del Centro Dramatico Nacional e Micomicon Teatro. Rifiutati dal caudillo Franco e dal comunista Stalin, 7000 spagnoli finirono nel campo austriaco di Mauthausen. Apolidi, senza patria, quindi contrassegnati dal triangolo azzurro sulle divise a righe dei prigionieri, vissero nel campo di concentramento, impiegati nei lavori massacranti nelle cave. Qui ne morirono a migliaia, di fame, freddo, malattie, fatica o falciati per puro divertimento.
Due di loro, impiegati nell’ufficio d’identificazione del campo, che lavorava a pieno ritmo perché tutto doveva essere documentato, arrivi, esecuzioni, parate, visite, riuscirono a conservare alcune preziose fotografie. La testimonianza della metodica follia dei nazisti fece conoscere al mondo quanto era accaduto e inchiodare molti criminali di guerra al processo di Norimberga.
Questi prigionieri malgrado tutto conservano la loro coscienza, - non sono ebrei, certo, e a loro i tedeschi riconoscono la scaltrezza e l’orgoglio della loro nazione – e con piccoli gesti, il minuto di silenzio al primo spagnolo morto nel campo, la rappresentazione di una rivista musicale, conservano la speranza se non di salvarsi, di restare umani. Magari attraverso una danza, una parrucca, una risata.
Lo spettacolo ha la complessità narrativa di un racconto cinematografico, per durata – circa due ore -, numero dei personaggi, sette attori in scena che impersonano diverse figure, tre musicisti, lo svolgimento storico, che va dal 1940 al 1945.
Sulla scena, scarna, le immagini storiche sono proiettate sul muro, emblema della reclusione. Dominano il bianco e nero, perché in un campo di concentramento non vi può essere colore, ma solo i grigi freddi e sporchi, e l’azzurro polveroso, che rimanda a quel triangolo, che non illumina, ma dà una luce livida alle figure in movimento sul palcoscenico, quasi fantasmi, in bilico tra vita e morte.
Fantasma è anche la voce narrante, il tedesco Ricken, professore un tempo, ora sergente nazista, che fin dall’inizio dichiara la sua colpa. Si aggira sulla scena, racconta e rende la sua confessione di tedesco innamorato della Germania, colto, amante dell’arte e della letteratura, eppure reo di aver partecipato allo sterminio per il quale i suoi figli, dice, non potranno mai perdonarlo.
Se la morte può divenire gioco, svuotarsi di senso o raccapriccio, come i campi di concentramento hanno insegnato, allora è possibile che i prigionieri intonino canti, intreccino passi di danza con i loro corpi emaciati, in un movimento che strappa ancora un brandello di dignità, e tesse un filo di speranza. Ma se lì la vita umana ha perso ogni valore, e si può uccidere per festeggiare il compleanno del Führer, perché al campo, recita il comandante, non si può nascere, ma solo morire, anche gli aguzzini possono essere dileggiati, nella loro stolta ferocia, nel loro banale ordine, e anche la morte può essere presa in giro, messa in scena e rappresentata come nel celebre quadro di Picasso, “Guernica”.
Spettacolo in spagnolo, con i sottotitoli in italiano, una bella sfida per il pubblico reggino, che però la vince; il teatro Cilea fa il pienone, e alla fine spettatori in piedi, per lunghi minuti di applausi.
Il teatro internazionale ha casa anche a Reggio Calabria e gli organizzatori del Festival, Officine Joniche Arti e i direttori artistici Maria Milasi e Americo Melchionda possono essere soddisfatti di questa edizione invernale, notevole per qualità e consensi.