LA PAROLA e LA STORIA. Buttàna, Buttanùna, Buttanàzza

LA PAROLA e LA STORIA. Buttàna, Buttanùna, Buttanàzza

Le demoiselles dAvignon - Picasso 1907    di GIUSEPPE TRIPODI -

Buttàna o anche Puttàna, prostituta, é parola calabro-sicula molto diffamante, scagliata per invidia, disillusione o dispetto anche contro donne onoratissime e, blasfemia grave, anche contro la Maria Santissima (io l’ho sentita da un siciliano che aveva perso il treno alla stazione Termini di Roma); tanto più suscita pruriti e moralismi quanto più l’esercizio sessuale ad essa legato rappresenta il “rimosso” o il “sognato” di ogni maschio sotto qualunque cielo.

Naturalmente più le società sono chiuse e bacchettone e più l’antichissimo mestiere, che risponde ad una esigenza naturale e fisiologica altrimenti compressa, prolifera; e più aumentano i moralisti che, come il famoso professore di una canzone di Fabrizio De André, di giorno si riferiscono alle puttane usando sinonimi i lessicalmente accomodanti (pubblica moglie) e di notte, o di nascosto, si fanno stabilire da esse il prezzo alle loro voglie.

Noi, che in gioventù fruimmo delle dolcezze che la donna anche nelle situazioni più varie e inadatte riesce comunque ad elargire alla metà maschile ed assetata d’amore del genere umano, discorreremo in modo alquanto dissacratorio di parole, etimologie e sinonimie con il sorriso sulle labbra e con animo grato verso quelle ormai lontane benefattrici.

E partiamo dall’origine che è nell’ebraico Pot, spacco femminile, pudenda, ventre della donna (Manzoni, Inni sacri, Il Natale, vv 68-70, “e l’adorò beata, // innanzi a Dio prostrata, // che il puro sen le aprì”) da cui il lat. puttus, (per G. Semerano, Dizionario della lingua latina e voci moderne, sub voce, “bambino è nel senso biblico: colui che ha aperto il seno materno) nonché Puteum- Puteus, pozzo, da cui i verbi Puto (apro, metto in luce), e Puteo (essere putrido, decomposto, molto vicino per senso al calabrese Baccalàru, maleodorante per antonomasia), nonché Pus (ma esiste anche l’equivalente greco Puòs nonché il verbo Putho, far marcire); da questi significati si generò l’antico francese Pute > Putaine e lo spagnolo Puta (tutti con significato di prostituta) nonché il volgare rinascimentale Potta (vulva)> Pottana> Puttana-Buttana , donna che vive usando appunto la potta.  

La parola ha declinazioni sia nominali (Buttanèlla e Buttagnòla, entrambe benevole e indirizzate alle ragazze anche in ambito familiare, ma, subito dopo, accrescitivi e dispregiativi come Buttanùna e Buttanàzza, Cacciàtila di ccà ssa buttanàzza / c’a li figghi di mamma ndi li mmazza) che verbali come Buttaniari, usato sia nel senso di andare a (cercare) buttane che, impropriamente e in spirito calvinista, come sinonimo di perdere tempo.

Terribile l’apostrofo Buttana di culu perché anche “le prostitute, pur vendendo il loro corpo, non praticano facilmente il coitus analis e i protettori le costringono a questa posizione per disprezzare quelle tra loro che abbiano rotto il contratto reciproco” (R. Corso, La vita sessuale nelle credenze, pratiche e tradizioni popolari italiane, Firenze, Olschki, 2001, p. 144).

Ma anche Figgh’i buttana (copia del castigliano Hijo de puta) e Buttana ‘i to mamma recano con sé una discreta carica offensiva; si veda l’invettiva del condannato innocente verso il calunniatore: Buttana di to’ ma’ ngalera sugnu / senza fari un centesimu di dannu”.

Se la Buttana non gode di grande considerazione ancora peggio avviene con la sua discendenza; un proverbio calabrese suggeriva che, in fatto di coniugio, è megghiu na buttana chi na figghia i buttana.

Dei sinonimi italiani rammemoriamo Meretrice (dal lat. Meretrix, secondo Isidoro di Siviglia dicta eo quod pretium libidinis mereatur, “perché si suda il prezzo del piacere”) e Cortigiana che circolò molto in età rinascimentale con tanto di trattati ad essa dedicati.

Dei sinonimi dialettali, a parte il singolarissimo e molto usato romanesco Mignotta (da filius matri ignotae> filius m.ignotae > filius migno(t)tae con la ritraduzione in volgare figlio di mignotta, che i romani attenuano con la formula sarvo la matre! Intendendo lasciarla immune dalle malefatte filiali), esiste una buona messe di parole nel calabro-siculo che andrebbero inventariate: da Bagascia di etimo incerto per lo Zanichelli ma sicuramente derivante da un misto del napoletano Vasciu (parte bassa della casa dove nei quartieri spagnoli veniva esercitata la prostituzione dalle Vasciarole) al castigliano Bajo da cui Bajaza (calabrese Vajazza, donna volgare e sboccata)> Bagascia (Bagascia c’hai lu culu quantu un mari / ddha intra nci po’ fari massaria / e centu sarmi nci po’ siminari …) Zocculara, Zocculuna (deonomastico metonimico, dal calzare a chi l’indossa) a Caiurda o Caiorda (forse assonante con Lorda) di origine sconosciuta, che si declina anche in peggio: Ora ti po’ chiamari caiurdàzza // Unni camìni strascìni mundìzza.

La cultura popolare non tardò ad articolare diverse specie all’interno della parola generica: 1) le buttàne di nnìcchiu (genitali femminili), o puttane in senso proprio, cioè quelle che concedono il loro corpo in cambio di una ricompensa in danaro oppure perché, come la Boccadirosa dell’omonima canzone di Fabrizio D’Andrè, mettevano l’amore sopra ogni cosa; 2) le buttàne di bucca, puttane sparlatrici, che, pur non prostituendosi, sono portate a parlar male del prossimo e quindi, anche inconsapevolmente, possono eccitare gli animi a risse e scontri dalle conseguenze nefaste; 3) le buttàne di cirivèddu, puttane di cervello, le più pericolose in quanto capaci di architettare raffinati intrighi.

La classificazione seguiva un ordine di cresente pericolosità e decrescente beneficio versi il prossimo: mentre la buttàna di nicchiu era poco pericolosa, anzi faceva scialare (ricriàva) le persone con cui entrava in contatto, le buttàne di bucca e quelle di cirivèddu non ricriàvano con il loro corpo e danneggiavano sia con le loro parole che con i loro pensieri.

*foto, Les demoiselles d'Avignon - Picasso, 1907