di GIUSEPPE TRIPODI -
bucca (lat. bucca- ae), elemento fondamentale della comunicazione ( bucca muta non po’ èssiri servùta/ bocca silenziosa non può essere servita) da usare però con cautela ( cu parra assai non vindi tila/ chi parla troppo non vende la tela). Particolarmente apprezzati coloro che pur avendo la bucca non la usano per parlare a ruota libera: dire di una persona che bucca ndavi e palòra no! (ha bocca ma non ha parola) è un gran complimento, specie se è una donna e se ha superato la soglia del matrimonio. Al contrario chi parla troppo, e magari anche forte, è un buccazzàru.
Da bucca-ae deriva quasi sicuramente buco (M. Cortellazzo/P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1979, per il quale buco deriva dal tardo latino bucca come fosso da fossa; così anche G. Devoto, Dizionario etimologico, Firenze, Le Monnier, 1968) anche se alcuni etimologi la pensano diversamente (B. Migliorini-A. Duro, Prontuario etimologico italiano, Torino, Paravia, 1958, ma anche Il dizionario della lingua Italiana, Roma, Treccani, vol. III, 1986).
Il dialetto calabrese ci può forse aiutare a condividere la posizione del dizionario Zanichelli: ed infatti da bucca deriva il verbo buccàri che significa sparire dietro ad un avvallamento del terreno (buccàta, anche con il diminutivo buccatèdda), e quindi dietro ad un buco che fa sparire dalla visuale colui che bucca.
Ma il verbo significa anche pendere da una parte, per esempio può buccàri il carico di un asino che, se non è simmetrico, crea problemi al trasporto (ma si dice anche semplicemente buccàu a scecca o buccàu u sceccu); può buccàri anche il vecchio nonno seduto a tavola quando si sposta da una parte con la parte superiore del corpo: e allora i nipoti, specie se sono tributari della pensione, gridano allarmati U nonnu bucca! U nonnu bucca! cercando di rimetterlo in posizione dritta (ma può essere che il poveretto stia soltanto cercando di evacuare l’aria dal suo corpo e protesti perché i nipoti non lo hanno lasciato buccàri il tanto che basti).
Si usa comunemente anche buccàri l’occhi per indicare il morire (dopu chi buccàu l’occhi me patri non si vitti cchiù beni a la nostra casa/ dopo che è morto mio padre a casa nostra non si è vista più una cosa buona) e buccàri lu cori, nel senso di sentire una fitta al cuore come per un cattivo presentimento.
Esisteva anche la bella espressione cu la panza a la bucca (con la pancia in bocca) per indicare una donna in avanzato stato di gravidanza e meritevole di attenzioni particolari che, con minore premura, andavano comunque garantite anche alle donne appena incinte, ànimi ligàti (anime legate, per analogia molto poetica col passaggio dalla fioritura al primo conformarsi del frutto).
A bucca/bucu è riconducibile anche trabuccu (ex-tra-bucu) che è “una sorta di mugginara dinamica, costituita da una piattaforma quadrata ancorata alla scogliera, e da quattro antenne d’abete, due delle quali lunghe dai quaranta ai sessanta metri, disposte a ventaglio sulla superficie marina; da due pennoni conficcati nella roccia perpendicolarmente; e da una larga rete di cotone collegata tramite corde e carrucole a due argani giganti. Un grosso masso, detto mazzere, provvede a tenere la rete in immersione; tre lembi restano sospesi a un metro dalla superficie, mentre l’altro poggia sul fondo. Un trabucco esposto a maestro cattura nel periodo autunnale anguille e capitoni; rivolto a levante, invece, spigole, dentici, sardine ma soprattutto cefali da marzo a giugno … in media dieci quintali a giorno …” ( G. Lannes, Un trabucco da salvare, in Il Manifesto, 11 marzo 1997).
Si capisce così come trabuccu in calabrese evoca capacità mangiatorie pantagrueliche per una pancia che è appunto un extrabuco, da cui ‘ndavi u trabuccu ma anche E chi ‘ndai u trabuccu? detto di (e rivolto a) persona che mangia, mangia e sembra non dover finire mai.