di GIUSEPPE TRIPODI -
jàzzu, giaciglio, deriva dal latino classico jaceo (giaccio, sto sdraiato) e dal tardo jacile o jacium (letto, giaciglio) come i catalani JAç(letto, cosa o riparo per dormire) e JAçA (riparo mobile e facile da trasportarsi) e il castigliano yacija (letto o luogo di riposo per animali, da cui la frase ser de mala yacija, avere il sonno difficile, o, figurativamente, essere persona inquieta, vagabondo).
Nella Calabria aspromontana lu jazzu è uno spazio recintato con una staccionata fatta di pannelli di legno rettangolari, aperti, mobili e sostenuti da pali conficcati nel terreno.
In genere era diviso in due parti comunicanti a mezzo di una stretta apertura attraverso la quale, spinti da un pecoraio, le bestie passavano una alla volta mentre un altro pecoraio seduto all’imboccatura della parte libera mungeva gli animali da latte; donde l’espressione tu tocca ch’eu mungiu (tu le spingi ed io le mungo) che, metaforicamente, può riferirsi anche ad una situazione di affollamento di persone.
Alcuni jazzi possono presentare anche una parte coperta da una bassa tettoia sotto la quale le bestie si riparano durante le intemperie, e ciò specialmente nel crotonese ove jazzu è “una costruzione … utilizzata per il ricovero di ovini e caprini. Essa consiste in un locale assai basso (difficilmente un uomo può starvi dritto) adiacente ad altre costruzioni ed antistante ad esso si trova uno spiazzo recintato con muretti a secco oppure con staccionata di legno, per dare la possibilità al bestiame di stazionare all’aperto” [G. Sciuto, La <penisoletta> calabrese, in E. Manzi- V. Ruggiero (a cura di), La casa rurale in Calabria, Firenze, Olschki, 1987, p. 278].
Nella Calabria aspromontana esiste una interessante parola, zàccanu, non presente nelle altre lingue romanze che Rohlfs fa risalire all’arabo sàkan (abitazione) che ha significato analogo a jàzzu e che, più precisamente, sarebbe il recinto per le capre.
Per Rohlfs (Dizionario alla voce) sarebbe, dentro l’ovile, il recinto dove, separati dalle madri, si rinchiudono gli agnelli. La pratica era finalizzata ad evitare che gli agnelli poppassero durante tutta la giornata non lasciando goccia di latte per la mungitura.
Il pastore invece, mungendo, ne lasciava alquanto per gli agnelli che poi provvedevano a vuotare in modo scientifico l’apparato mammario che si chiama virìna, dal latino uber – uberis (nom. pl. uberina) poppa, mammella, capezzolo, anche riferito a donna prosperosa.
Esiste anche il verbo zaccaniàri, far entrare nello zàccanu, e il diminutivo zaccanèddhu, che metaforicamente allude ad altri recinti poco appetibili come quello carcerario ( si lu levaru a lu zaccanèddhu, l’hanno arrestato).
In provincia di Vibo Valentia esiste il toponimo Zaccanopoli .
Ma, come in Leopardi (sotto covile o cuna / è funesto a chi nasce il dì natale, chiusa del Canto notturno …), anche nella nostra lingua le parole destinate agli animali sono spesso associate a quelle per gli uomini.
Ad un bimbo piccolo che non vuole abbandonare il letto dei genitori si può intimare: Vatindi ‘nta lu to jazzu (vattene al tuo posto).
Si usa anche jazzata per indicare i luoghi aperti nei quali durante l’estate riposano abitudinariamente le vacche, accumulandovi un discreto corredo di escrementi e di residui di cibo.
Da ragazzi salimmo, non autorizzati, su un albero di nespole e ne mangiammo a lungo. Sorpresi dal padrone ci giustificammo dicendo: Ma nui ddu nèspuli l’unu mangiammu! E lui di rimando: Ma comu du nespuli l’unu, ‘cca ‘nterra ‘nc’esti na jazzata di scorci! (Ma come due nespole a testa che qui c’è un giaciglio di bucce!).
Jazzu come giaciglio umano ricorre anche nel dialetto siciliano come è attestato da Ignazio Buttitta: “Nun li firmati ddu jornu/ mancu si facìti chiòveri petri/ sannu ormai chi lu munnu/ non è ìsula di cunnannàti/ e chi la terra/ consa la tàvula a tutti/ e chi lu suli/ paràtu d’ori/ trasi di li pirtusa di li toppi/ a quadiàri/ puru lu jazzu di lu poviru (Non li fermerete quel giorno/ neanche se farete piovere pietre/ sanno ormai che il mondo/ non è un’isola per forzati/ e che la terra/ apparecchia la tavola per tutti/ e che il sole/ ornato di ori/ entra attraverso i buchi delle toppe/ a riscaldare/ anche il giaciglio del povero! In La peddi nova, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 81).