di MIMMO GANGEMI -
Il pecoraio si annunciò da lontano con fischi acuti tra lingua e palato. Un’accetta nuda inserita nella cintura – cintura… un sottopancia di mulo adattato a cintura – l’ombrello agganciato per il manico di legno al colletto della giacca già sulle spalle di altre generazioni della famiglia, batteva in terra un bastone a sveltire il piccolo gregge. Gli stavano dappresso i due figli, uno di otto anni e uno di dieci, con l'occhio smaliziato di chi già conosce il mondo e con il sorrisetto furbo e sfottente, sparso in tondo e distribuito largo su noi scolari in attesa di entrare a scuola, per aver trovato il rimedio di evitarsi il castigo tra i banchi e le nerbate, legittime allora, del maestro. Le pecore ci spartirono in due, belando. I cani lanuti che le scortavano ai lati ringhiarono e quel corteo di indistinguibili cristiani e bestie fendette la folla dei piccoli uomini avviati agli studi.
“Hiiiiiiiiii, se ne fanno di scienziati” gridò il pecoraio, coinvolgendoci tutti con un roteare di mano. Rise sguaiato. E fu l'ultimo del gregge a svoltare la traversa. “Vi hanno fottuti, mangiainchiostro” gli fece eco, tra offesa e sfottò, il più grandicello dei due ragazzi. Era la metà degli anni ’50, per molti un nuovo inizio, per quei due l’immutabilità che si trascinava da secoli.
E infatti avevano torto. Mi ci sono poi imbattuto lungo le strade della vita, in loro e in altri come loro. Erano rimasti indietro, con destini acciaccati, senza orizzonti, alcuni avevano avuto esistenze dannate, dal carcere, dalla droga, dal semplice confrontarsi con i coetanei che “avevano le scuole”.
La lezione di allora non è servita, se sono ricomparse famiglie che decidono di non mandare i figli alla scuola dell’obbligo. È successo a Petilia Policastro. Dove la solerzia delle forze dell’ordine non ha inciso granché, se il fenomeno persiste. Le diserzioni scolastiche riguardano per lo più famiglie italiane e hanno due diverse colpevolezze: genitori contadini che, per ignoranza, fors’anche per la povertà ricomparsa, trovano più utili i figli nei campi, a lordarsi di una terra che porta pane, o li inducono a fare i manovali in nero; genitori ’ndranghetisti o malati di ’ndrangheta consapevoli che per certi “mestieri” non occorrono scuole, non quelle che richiedono applicazione sui libri almeno – hanno scelto di crescere i figli in selvaggitudine, con un destino tracciato uguale al loro, e già segnato, di sangue, di dolore, di morte, di galera.
Nell’uno e nell’altro caso, sempre miseria è, di animi e di sentimenti. Assomiglia a un ritorno indietro, sembra dirci che si sta regredendo fino a pensieri simili a quelli del pecoraio degli anni ’50. Più ancora, è la traccia di un decollo mancato, di un ritardo storico che la Calabria continua a trascinarsi appresso. L’evasione scolastica è un fenomeno che ci taglierà fuori ancora di più, fin dai blocchi di partenza, che accrescerà il ritardo rispetto al resto d’Italia. Sintomi preoccupanti, pure perché di storie come quella di Petilia Policastro ce n’è troppe. Sono i segni della sconfitta. Mostrano un popolo di vinti che sopporta tacendo e che si contorce su se stesso senza più riuscire a disegnare il domani, a costruire sogni, un’idea di riscatto.
La piaga della diserzione scolastica in una terra già messa male nelle classifiche di civiltà e impoverita dai giovani che scappano in massa, senza che ne attragga altri, significa che qui si va disintegrando il futuro. Bisogna che se ne prenda atto. L’Italia, costi quel che costi, non può consentire un’ingiustizia così feroce, che tocchi imbattersi di nuovo nei ragazzini impediti alla fanciullezza, troppo presto adulti in lavori da adulti, come quelli dei ricordi ingialliti della mia infanzia, con il muco verdastro che faceva loro capolino dalle narici, gli occhi già patiti, in testa il basco di carta del cemento.