di ALBERTO CISTERNA
- La dedica del regista Munzi alla gente di Africo e di Bianco e della Locride tutta e sentirgli dire che senza di lei il film non sarebbe mai nato, commuove ed esalta. La Calabria è stata letteralmente sbranata dai media nazionali ed internazionali negli ultimi anni, fatti a brandelli per interessi odiosi, bruciata sull’altare da carrieristi di vario genere.
Vederla oggi nel tempio della cultura cinematografica italiana è un evento esaltante. Proprio oggi al Quirinale il presidente Mattarella, ricevendo tutto il cinema del David di Donatello, aveva detto che la cultura è il più importante baluardo contro la corruzione ed il film di Munzi e il libro di Criaco sono lì a dimostrarlo.
Alcuni anni or sono comprai Anime nere così per caso. La copertina, il titolo erano una suggestione. Il nome dell'autore, poi, una tentazione: Gioacchino Criaco. Un uomo contro, di una terra che difficilmente esprime i propri sentimenti, smaschera le proprie viscere. Il libro - e i tanti che lo hanno letto lo sanno - provoca, sfregia, inquieta.
Così ne venne fuori, in un estate calda, una recensione su un importante quotidiano del Sud, a metà tra l'ammirazione per lo sforzo letterario e un monito: attenzione le Anime nere non sono la ndrangheta, ma non sono neppure eroi. Quella montagna, in un guado tra il Golgota e il Taigeto, esige sangue e sempre sangue innocente, perché partorito dagli uomini e dalla loro sete di vendetta o di giustizia.
Ho riletto quella recensione e forse, oggi, spenderei qualche altra parola per Gioacchino Criaco, un intellettuale colto e raffinato, straziato dall'amore per un'umanità irrimedibile.
Il film, come si legge nei titoli di coda, rielabora in profondità la trama del libro, in qualche misura lo prosegue e lo orienta verso un'intimità dolorante e senza scampo. Lo dico subito la filmografia è straordinaria, gli squarci splendidi. Amsterdam, Milano, Africo vecchia e Casalinuovo sono avvolti in una fotografia mozzafiato: i colori di Veermer nella Vucceria di Guttuso.
Non è il mio mestiere, ma tento una lettura. C'è un baricentro nella pellicola, un uomo su cui poggia, nella visione di Munzi, tutta la storia e questo è Luciano, con il suo gregge di capre, la sua casa tutta cemento e mattoni, il suo sguardo dolente. Un uomo di pace, sfinito dalla morte del padre, molti anni prima, e dai traffici di cocaina dei due fratelli che vivono tra Milano ed il mondo. Narcos non ndranghetisti, come la storia ci ha insegnato. E poi un figlio irrequieto, umiliato dall'arrendevolezza paterna e perduto nel desiderio del denaro facile. Alla fine nessuno scamperà alla morte in una sfida alla ndrangheta persa in partenza perché priva di ogni reale conoscenza delle tragedie e del disonore di quel mondo, avvezzo al tradimento ed al doppio gioco; persa perché moderna in un mondo di conservazione e di tenebre.
Eppure nella tragedia di Luciano, dell'uomo mite che piange un figlio ucciso, ma non vuole vendicarlo; nel suo gesto risoluto e risolutivo di uccidere il fratello rimasto in vita per fermare una mattanza e cancellare per intero il seme maschile di una dannazione, c'è qualcosa che interroga in modo profondo, oserei dire intimo. Può Abele uccidere Caino? Può chi ha un cuore mite e puro distruggere la vita di suo fratello per una scelta di redenzione dal sangue? Se lo capissimo e arrivassimo a giustificarlo dovremmo ribaltare ogni prospettiva. Se il giusto può farsi macchina di ingiustizia, se l'agnello può diventare lupo, ogni categoria etica muta, ogni scenario interiore trascolora.
È il fondo buio in cui Anime nere, il film come il libro, ti trascinano; un gorgo che diventa abisso ed in cui ciascuno resta solo a ragionare della propria umanità. A dispetto dei troppi asin bigi che continuano a rosicchiare i loro cardi rossi e turchini e che nell'ultimo frame della pellicola ereditano il mondo.