Per A Lanterna
di DOMENICO DARA - L’albero dove Giuda s’impiccò si trova ai Chiùppi Vìacchi. È il più orientale delle quattro ficàre rimaste, ntostàte e siccàte come pali della luce. Per arrivarci bisogna sagghìra oltre Santurùaccu e attraversare i pochi ruderi rimasti di antica civiltà, ora interdetti da impalcature di lega zincata che hanno sottratto la quotidianità del mito. Ma dopo i ruderi ne vale la pena: uno sparuto promontorio, vegetazione bassa, sentieri fatti e rifatti che sono i palinsesti della storia.
Il paese è scomparso. Ci sono posti nei quali ti fermi e provi un senso di appartenenza, come se fossi erba e pietra, terra e sentiero, finanche progenitore e avo, il vessato fuggito da Toco e Caria per quei maledetti turchicani saraceni e su questa rupe rifugiatosi per difendersi con le pietre strappate alle montagne, uno dei gloriosi Gheros Faecos, la Sacra Falange.
Giuda morì qui dopo che era nato a Keriot-Chezron, al confine di Edom la turca, posta sullo stesso parallelo di Girifalco (abitanti 6.008, prov. Catanzaro) ma a 2147 chilometri ad ovest, che forse i destini sarebbero più chiari se studiati con l’ausilio delle linee geografiche.
L’infame leggenda che Giuda fosse calabrese nacque da un banale errore di trascrizione, una mosca sul naso o na vìaddusa che sbatte sul vetro e l’amanuense scambiò l’Iscariota con lo Scaleota, abitante di Scalea. Ci sono luoghi nei quali le storie non bisogna nemmeno vrusciàrsi la testa a scriverle, che sono già bellepronte, istoriate sulle cortecce o sulle selci. E su questo piccolo promontorio la storia ruota intorno a quel fico ntostàtu e siccàtu dove Giuda s’impiccò macchiando la discendenza.
Mi siedo tra i cardunciàri e me lo immagino appeso lì, il Sicario, muso prognato, derma bronzino di seme Camitico, appendùtu come carne d’affumicare, come cachìssu giorno di santalucia ch’aspetta na folàta per atterrarsi. Dopo che venne ritrovato, il corpo di Giuda fu bruciato e la sua cenere sparsa sul campo di sangue. Più avanti, a occidente, al limitare del dirupo, l’impronta rabbiosa del diavolo su una pietra metamorfica sancisce la sconfitta del male. L’origine magnogreca del mio seme è dunque qui, ottantapersettantametriquadri di Akeldamà, confinata tra un ulivo e una pietra, tra il tradimento e la sua sconfitta.
E c’è poi lo scirocco di salsedine che arriva da destra, dal varco istimico che come una feritoia offre la visione del Mare Nostrum, la grande vasca intorno alla quale gracchiamo come rane intorno allo stagno, e penso che è lo stesso mare che anche lei guarda dal Cocynthum, il suo promontorio, con i suoi occhi stratificati a invasioni e resistenze, con le sue pupille d’orgoglio gherofaco di chi difende con le pietre la pietra. Che anche lei, fenice dei postfataresurgo, saprà d’essere nell’unico luogo in cui potrebbe, a provare il dovere dell’appartenenza, a sentirsi erba e sentiero, terra e agrume, e cenere, perfino cenere, non quella maledetta dei fuochi vigliaccamente appicciàti ma quella sacra cosparsa sui capi, che alla fine è sempre il fuoco a decretare sentenze: se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Così scrisse l’Apostolo, colui che mangiò, nell’ultima cena, al fianco dell’Iscariota.