Corrado Alvaro, che viveva le contraddizioni della vita d’Aspromonte, guardando a una realtà complessa come quella meridionale che si barcamenava da secoli tra due antitetici sistemi, quello criminale e quello cosiddetto legale, scriveva: «... la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».
La polemica sull’Antimafia sorta in questi ultimi anni sembra essere giunta al capolinea. Soprattutto perché la stessa esposizione mediatica di una certa Antimafia, non suffragata da risultati processuali, ha finito per rendere sempre meno credibile il suo ruolo e le sue conclusioni.
La fine dell’Antimafia non è altro che la nemesi di una deriva giustizialista che ha ottenuto quale risultato quello di giustiziare se stessa. Il crollo di fiducia verso l’Antimafia non è solo il risultato di indagini dissoltesi in assoluzioni. È il risultato dall’avere fatto in molte occasioni di tutta un’erba un fascio ricorrendo per esempio alla trasformazione del “vincolo associativo” in reato a se stante, anche in assenza del cosiddetto “reato fine”, cioè del reato vero e proprio.
A questa Antimafia si riferisce Francesco Forgione (nel suo I Tragediatori. La fine dell’Antimafia e il crollo dei suoi miti, Rubbettino, 2016).
Il libro di Forgione (ex presidente della commissione parlamentare Antimafia) si pone come un saggio non casuale ma, riguardo l’idea di fondo, non esclusivo. In Calabria, e nella Locride, la parola tragediatori ricorda uno scrittore puntuale, fine e sarcasticamente pungente. Un giornalista dotato di una dignità non comune e di un altrettanto non comune amore per la Calabria: Antonio Delfino. Il termine tragediatori compare in alcuni suoi scritti e nei dialoghi nelle sere d’estate. Dialoghi e scritti dove lo scrittore di Platì non nascondeva il suo associare tale figura alle professionalità magnogreche che ben si cimentavano nelle diverse parti. Tragedie, che hanno caratterizzato il tramandarsi di una sorta di cultura del dramma nel nostro Sud.
Se per Forgione l’Antimafia è giunta ai suoi limiti con il crollo dei vari miti, bisognerebbe chiedergli - nonostante l’autore descriva bene il suo impegno nella Commissione e il suo pensiero divergente - perché spiegare solo oggi cosa è una certa Antimafia. E cioè quell’Antimafia la cui azione ha portato a due risultati. Da una parte la criminalizzazione di un territorio e di uomini e donne responsabili solo per vincolo di parentela. Dall’altra, la sospensione di fatto della democrazia rappresentativa attraverso un ricorso diffuso al commissariamento dei comuni per ipotesi che spesso non si sono rivelate congrue, ma hanno giustificato, con esborsi non da poco, le diarie dei commissari e assicurato prime pagine di giornali.
Tuttavia, la verità che ognuno di noi può trovare nel libro di Forgione è che vi è almeno l’apprezzabile volontà, un po’ tardiva, nel descrivere una pericolosa inversione di tendenza che oggi si può leggere nelle strade e negli occhi dei ragazzi calabresi e non solo. Quella di cercare di spiegare perché, come scrive l’ex magistrato Giuseppe di Lello nella Prefazione al volume di Forgione «Si sperava che nel corso degli anni, dopo tante battaglie politiche, culturali, sociali e giudiziarie contro Cosa Nostra, prevalessero nel Paese atteggiamenti di avversione e insofferenza contro la stessa e invece oggi ci troviamo a dover constatare una diffusa sensazione di rigetto del movimento antimafia che rischia di travolgere anche quanto di buono e di efficace esso ha prodotto».
La risposta è nei casi citati da Forgione e nei titoli dei capitoli che fanno già presagire il riorientamento dell’autore, (dalle Avanguardie togate al paragrafo su Andreotti e i fondamentalisti. Dal capitolo sulle Antimafie contro e i paragrafi su Libera e il suo popolo ecc…).
La lezione di Delfino come di Forgione, di cui il primo apprezzerebbe oggi le posizioni del secondo superando le riserve del tempo, è che colui che nel tragediare assume in sé un potere, alla fine induce alla paura e al timore sconfinando, così, nello stesso strumento a cui ricorre la criminalità. Il risultato che si legge nelle pagine del libro di Forgione è che l’ennesimo incipit di Sciascia sia ancora una volta drammaticamente esatto. E, cioè, che «a forza di andare in profondità, si è sprofondati». Ma se «soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche leggerezza, che sa essere leggera, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità» allora forse questa è la strada. Superare il rischio di trasformare una lotta seria in una pericolosa banalità. Se così non fosse, ogni anelito di difesa della vera legalità diventerebbe uno sforzo inutile.
Credo come Forgione che alla fine si sia giunti ad un punto di non ritorno per il quale si dovrebbe avere il coraggio di far sì che il pensiero di Sciascia non sia ancora una volta la nostra nemesi intellettuale laddove ci ricorda che «la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini».