Palahniuk però no. No. Lui schizza come un mamba nero zuzzurellone e letale per non lasciarsi ingabbiare in alcuna categoria.
Chuck Palahniuk (Washington 1962) non è uno scrittore. È un incidente. Un incidente su un’automobile a cui per qualche motivo non si può affiancare un manualetto delle istruzioni a sostegno di una pratica necessaria se si vuole uscirne illesi. Non c’è scienza dell’espressione che tenga, né teorici del gusto dell’orrido da citare: il suo stile non può essere “spiegato”, va accolto senza basarsi su una preliminare riconfigurazione e ricollocazione delle parole e dei concetti espressi. va compreso come la vita violenta o come alcune vite violente. Come L’assenza o la Presenza inquietante di qualcosa o qualcuno, come la terrificante immagine del “Doppio” dentro se stessi. va abbracciato esattamente come si abbraccerebbe un quarto di bue sanguinolento sul bancone di una macelleria: con ribrezzo per ciò che è diventato e pietà per ciò che era. Basti sapere che Palahniuk “lavora” come camionista quando non scrive. ma lo fa perché odia mortalmente i lunghi viaggi (“Sono uno stanziale ma mi costringo al nomadismo”) e fare ciò che detesta, per sua stessa ammissione, lo aiuta a produrre visioni che non sempre sono nitide, anche quando potrebbe sembrare lapalissiana la loro aberrazione. Ai suoi reading pubblici molto spesso gli spettatori svengono (“il mio intento è interagire con il lettore anche a livello fisico e istintivo, creando empatia e facendogli provare l’esperienza del sesso, della droga e della malattia”), ma nonostante il disgusto avvertito altrettanto schiettamente dichiarano di aver assistito ad un evento unico, con la mente avvinghiata ad una sorta di sindrome di stoccolma che mai farà loro dimenticare lo stimolo che l’ha determinata. personalmente e non senza sforzo creativo, ho iniziato timidamente a paragonare la sua penna alle imposte di certi bungalow occupati e devastati da personaggi abusivi, con i cessi divelti, le mattonelle rotte, gli infissi sgretolati e riviste porno e bottiglie di birra di poco prezzo sparpagliate ovunque tra cocci di vetro ed escrementi di animali. e queste tapparelle tarlate nascondono le fioche luci azzurre di un’ulteriore umanità allo sfascio, che veglia in attesa di notizie cattive. O anche peggiori. ma neanche questo è sufficiente quando si tratta di palahniuk : l’amore ( o i suoi surrogati) arriva improvvisamente a chiazzare il degrado con un’infinità di sfumature, tali da lasciarti concepire una qualsivoglia forma si speranza. ed è proprio nel bel mezzo di quel momento perfetto che, come per un miracolo dell’ Apostata Supremo, arriva la malattia mentale o fisica, con le sue dipendenze, ossessioni, allucinazioni, perversioni, ferite purulente e tanfo di liquidi biologici .Lui è creatore di testi che non rispettano alcuna regola precisa: la frantumazione del suo processo narrativo in tante unità all’interno delle quali si fanno più storie non comporta una disposizione degli eventi che non rispetta l’ordine cronologico reale, perché all’interno di ogni unità i racconti procedono secondo un intreccio che, dopo uno o più stacchi fa riprendere l’azione esattamente da dove si era fermata. Chuck ti altera il gusto, non c’è che dire. ti fa torcere il naso ma ti costringe a continuare a mangiare. Tutto ciò potrebbe risultare urticante in un’epoca storica in cui gli editori offrendo i loro servigi ad un pubblico sempre più esigente sì, ma di un’esigenza omologata e omologante s’impegnano ad allestire modelli carichi di teatrali passioni che scimmiottano la bassa letteratura: dallo stile erotico/ romantico (“Oh! forme sinuose da frustare, Oh fato avverso”!) a quello orientaleggiante dove “le arpe di Sion accompagnano i “vini di Chiraz”. Palahniuk però no. NO. Lui schizza come un mamba nero zuzzurellone e letale per non lasciarsi ingabbiare in alcuna categoria. le sue stilettate velenose sono diventate flashback cinematografici sincopati e psicotici ma immortali. il perfezionista David Fincher ha diretto l’inizialmente flop Fight club nel 1999 che solo in seguito è diventato un cult grazie al passaparola degli allora pochissimi estimatori del genere in medias res; il versatile Clark Gregg realizza nel 2008 il riadattamento di “Soffocare”, una black comedy che spazia da “momenti estremamente drammatici” ad altri “Assurdamente Stupidi o squisitamente pornografici”. chuck è stato dichiarato artisticamente agonizzante più di una volta: secondo alcuni raffinati palati letterari ha iniziato nel 2007 con “Rabbia”, proseguendo con i successivi “Gang Bang” (2008) e “Pigmeo” (2009). ma l’agonia, contro ogni previsione, non è diventata morte: nel 2014, con “beautiful you” si risveglia come i demoni del pandemonium dopo la caduta dal paradiso, mettendo a tacere le urla belluine di chi voleva staccargli il respiratore e procede come un treno fino a “romance” (2016) in cui ritorna al racconto breve, dispiegando tutta la sua potenza di narratore e noi amanti (non lettori) siamo felici che non l’abbia usata a fin di bene.