Guitto, ciarlatano, giullare, genio assoluto. In due parole: Dario Fo.
Nel 1977, in una tristissima televisione non ancora a colori, paludata negli ingessatissimi programmi del primo e secondo canale, come si diceva allora, irrompe come una ventata di aria fresca la variopinta, irriverente, scanzonata e iconoclasta compagnia teatrale (ma assomigliava di più a un circo, chiassoso e festante) di Dario Fo e della sua musa, Franca Rame, ed è subito amore. Di quelli che ti prendono allo stomaco e non ti mollano più anche se, nel frattempo, passano i decenni e tu non sei più lo stesso. Ma il feeling, quello sì, rimane immutato.
All’epoca ero un adolescente inquieto alle prese con le immaginabili asprezze del vivere in una realtà molto difficile, qual era la mia Reggio in quegli anni, e questo funambolo della parola e del gesto teatrale, questa maschera ilare, fanciullesca ma graffiante, e la sua bellissima compagna sulle scene e nella vita mi sono apparsi come dei folletti amabili e giocosi che mi confortavano nelle mie grigie serate solitarie. Li stavo a guardare incantato senza perdermi una sola parola, a partire già dalla sigla: “Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sui balconi, sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra il carrozzone …” con grande disdoro dei miei che cominciavano a pensare che forse sì, era il caso di farmi vedere da uno bravo.
Con gli anni Dario è diventato un vero e proprio mito, un maestro di teatro preso a modello da molti. Il suo Gramelot è stato imitato, con risultati più o meno all’altezza, da tanti estimatori ma solo lui riusciva a farne una musica ancor più espressiva di tutte le parole di tutte le lingue del pianeta. È arrivato a essere l’autore italiano più rappresentato nel mondo, fino all’ inaspettato ma meritatissimo Nobel per la letteratura del 1997. Nonostante ciò, ha continuato a definirsi un guitto fino agli ultimi giorni.
Dicono che alla fine fosse stato preso da una specie di bulimia del vivere. In palcoscenico fino al settembre precedente a recitare, i pennelli ancora in mano qualche ora prima del ricovero al Sacco di Milano. Era, invece, solamente la sua generosità che, sentendo avvicinarsi la fine, gli imponeva di dare di sé tutto quel che poteva prima dell’ultimo sipario. Aveva novant’anni ma era sempre quel giovane imbranato spilungone, con un gran nasone, i dentoni sporgenti, due orecchie imbarazzanti, che con la sua arte e con la sua vitalità ha cambiato per sempre il costume nazionale e ha fatto di noi italiani persone un po’ migliori di prima.