Immaginazione, fantasia, piedi straordinari: Cruijff lavorava più di tutti e per tutti
“Gli suggerii di tenere per sé quel pallone e di darcene un altro, visto che in quella partita avevamo qualche diritto anche noi. –Quanti anni hai? disse. Ed io, obbediente: -Venti! Fece una faccia che significava ‘’chissà dove andremo a finire con questi giovani d’oggi’’, e dall’alto dei suoi gloriosi trent’anni mi mollò uno schiaffo dialettico: -Bene, a 20 anni a Cruijff si dà del lei”.
Hendrik Johannes Cruijff, detto Johan o Pelè bianco, come lo definì Gianni Brera, o ancora meglio il Profeta del goal, ha perso la sua lotta contro il cancro due anni fa: sono molti i giocatori che hanno fatto la storia del calcio, ma sono pochissimi quelli che sono riusciti a cambiarla. Il più grande numero 14 di sempre, è uno di questi.
Cresciuto nel “villaggio di cemento” della periferia di Amsterdam da genitori modesti, vive l’infanzia rompendo finestre col suo pallone a 200 metri dallo stadio dell’Ajax, che lo prende a soli 10 anni e qualche anno dopo lo consacrerà campione.
Scartato dalla leva militare per i suoi piedi piatti, Cruijff ci mette veramente poco a far esplodere doti atletiche incredibili e un carisma innato che risulta essere subito una calamita per il pallone e per gli appassionati: la differenza la fa a livello tattico, un maniaco dello spazio che ha sempre due tempi di gioco di vantaggio. Una velocità subito biglietto da visita, che anzi a suo stesso dire era una velocità presunta: l’impressione di un’accellerazione straordinaria dovuta a quel “mezzo secondo” di anticipo negli scatti e nelle giocate, risultato della netta differenza tra “lo scatto fatto dopo il passaggio del compagno, e lo scatto fatto prima del medesimo passaggio, prevedendolo, immaginandolo”, come lui stesso amava indicare.
Immaginazione, fantasia, piedi straordinari: Cruijff lavorava più di tutti e per tutti, faceva tutto quello che gli si chiedeva e mai in un posto che gli fosse imposto. Non era attaccante ma segnava molto, non era un regista ma non esisteva azione che non passasse dalle sue gambe; in poche parole, la migliore espressione del calcio moderno, l’emblema di un movimento storico calcistico senza precedenti di cui ha costituito la miccia e l’essenza: siamo negli anni ’70, esplode il “calcio totale”, o a zona.
Poco prima, nel 1964, l’Ajax perde per 9-4 contro i rivali del Feyenord, sconfitta che porta all’esonero di Vic Buckingham a cui subentra Rinus Michels, l’allenatore che darà il via ad una nuova era tutta a tinte arancioni: un laboratorio fatto di allenamenti sovrumani e talenti ed idee talmente rivoluzionarie che per forza di cose si impongono come snodo di passaggio tra il calcio tradizionale e quello moderno. Tutti attaccano, tutti difendono, difese avversarie paralizzate da un fuorigioco continuo ed estenuante, schemi rivoluzionari, tattica dispendiosa, numeri di maglia che non sono più icona di un ruolo ben definito sul rettangolo di gioco: l’Arancia Meccanica ha l’unico volto, arrogante, vincente, incantevole di Johan Cruijff.
Non ha una data precisa il prima e il dopo Cruijff di quel calcio totale che egli fa suo e che non stenta di risultati: con l’Ajax degli scudetti e delle tre Coppe dei Campioni così come con la Nazionale del mitico mondiale di Germania Ovest del 1974, perso in finale in una partita quasi ideologica contro il calcio di Beckenbauer.
Ovunque il Pelè bianco metta piede, lascia segni tangibili e netti, come al Barcellona, dove importa e rafforza un gusto del calcio così raffinato che ancora oggi nel club catalano è impensabile anche solo l’idea del vincere senza giocare bene e incantare. L’origine di questa tendenza nasce proprio dalle giocate di Cruijff, che gli valgono 3 palloni d’oro in 4 anni, come solo Platini e Van Basten faranno in seguito. Van Basten, suo naturale erede, mentre invece di predecessori non ne ha avuti mai: fiero della sua unicità, il profeta del goal era al massimo la replica europea dei calciatori divini d’oltreoceano che tanto ammiravano quel giovane coi capelli lunghi sempre al posto giusto del campo.
In Europa, dove colleziona 402 goal in circa 700 partite tra club e Nazionale, tutti lo ammirano e temono al tempo stesso: “Era un piacere vederlo e un dispiacere giocarci contro”, disse di lui Giacinto Facchetti, cui Johan replicava dicendo che gli italiani non sanno vincere, ma contro di loro puoi perdere.
Cruijff dunque pietra miliare del calcio moderno, il quale in altri termini segna anche la fine di quello rigido e austero che lasciava sempre più il posto a quello legato agli affari: i soldi rappresentano un altro capitolo non banale della vita e della carriera dell’olandese, onnipresente (come altri) sul palcoscenico mediatico e capace di scegliere gli Stati Uniti come meta successiva all’esperienza catalana, per giocare un calcio povero ma redditizio e lasciando intravedere la direzione che il calcio cominciava a prendere già da allora.
Tornerà all’Ajax più per orgoglio che per rimettersi in gioco, come sancito dal passaggio due anni dopo al Feyenord, storico rivale, con il quale chiude la carriera da giocatore. Ajax e Barcellona saranno anche i due club della sua esperienza da allenatore, negli stessi anni in cui la salute diviene cagionevole. Nel 2009 ci riprova, salvo poi assumere le vesti di dirigente nell’Ajax di quel suo erede di nome Van Basten.
“Se non puoi vincere, assicurati di non perdere”: il cancro al polmone diagnosticato nel 2015 viene definito da Cruijff come un match in cui sei sotto 2-0 nel primo tempo, ma con la convinzione di riuscire a ribaltare tutto nella ripresa. E’ forse questo l’unico dribbling, l’unico mezzo tempo subìto dalla vita da un giocatore straordinario, unico, eterno, come l’attimo di un calcio di rigore appena calciato.
O ancora meglio, leggendario, romantico, totale. Da 1 a 100, e poi frena.