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Il fallimento calcistico è solo il sintomo di una malattia ben più grave

 

La sconfitta del calcio italiano è rappresentativa del momento storico che la nazione attraversa; non è soltanto una questione tecnica, legata alla conduzione della squadra o allo scarso valore dei giocatori, bensì è il risultato finale di un modo d’intendere il gioco, lo sport, la vita.

Tutto deriva dal modello (anzi, dal paradigma) culturale vigente. Il pensiero che tutti debbano essere protagonisti, vincenti, unici. La follia che la celebrità e il successo siano un viatico per la felicità.

Partiamo dai calciatori. Questa fame di nuovi idoli li conduce al massacro. Gli basta fare un bel gol, giocare una buona stagione, ed eccoli entrare nell’Olimpo. Sono così grandi gli interessi economici, pilotati da mascalzoni senza scrupoli, che i giovani si trasformano immediatamente in macchine da soldi. Questo influisce sul loro comportamento, sulla loro volontà, sulla consapevolezza. Pensano già di essere arrivati, termina quell’apprendistato senza fine che deve essere qualsiasi carriera. Diventano quello che sono tantissimi loro contemporanei: dei narcisi viziati, senza protezione dalle difficoltà, ovattati in una specie di iper-mammismo collettivo. Si atteggiano a uomini di sport, senza esserlo. Si lamentano in continuazione, danno la colpa agli altri. La loro irresponsabilità è totale: se le cose vanno male la colpa è sempre degli altri. Se non si allenano, la colpa è del mister che li fa sudare. Se sbagliano partite su partite, la colpa è dei tifosi che li fischiano. Così è nel calcio, così è nel resto. Il narcisismo, al posto di essere curato, è incentivato: in fondo è una delle vie che conduce al consumo. Provoca odio generalizzato, crea disimpegno, ma è funzionale. Formami un narcisista, ed avrai un perfetto cittadino del domani.

In realtà non si può essere tutti simili a Maradona. Ed il calcio, come il resto, ha bisogno del genio, ma ha anche bisogno del difensore e del mediano oscuro che recupera palloni. Tutti hanno la stessa identica importanza e dignità. La pubblicità odiosa che passa la TV è simbolica. Quelle scimmiette ammaestrate che trattano la palla come tanti funamboli non sono dei giocatori di calcio: sono soltanto scimmie ammaestrate. Il calcio è un gioco di squadra, e, come tutti i giochi, è una cosa seria; la Svezia lo ha dimostrato.

La classe dirigente calcistica non ha mai brillato per onestà, esempio, idee. Ma quella attuale è da censurare in modo totale, cominciando dal leader, Tavecchio, le cui azioni non sono degne di essere riportate. Le cui dichiarazioni rivelano in quale palude si è ficcato lo sport. Per non parlare poi dei presidenti, dei manager, dei procuratori. In generale possono essere definiti banda di affaristi senza scrupoli. Ma l’aspetto più grave è il loro assoluto disinteresse per il gioco. Per i ragazzi che lo praticano. Per i valori che contiene. Un potere totalmente ignorante di ciò che amministra non può che condurre alla disfatta. E in effetti così è stato.

I giornalisti sportivi sono, in grandissima maggioranza, complici di questa decadenza senza freni. Pensare agli anni di Brera e Viola, pensare a Soriano e Galeano, a Saba, a Braschi, a decine di altri raffinati e colti umanisti che scrivevano pezzi di letteratura sull’epica dello sport, e leggere o ascoltare le stupidate galattiche dei contemporanei è come paragonare Dante a Moccia. A tutto questo si aggiunge l’invasione delle scommesse, con il teatrino che ne deriva. Si aggiunge la scomparsa definitiva di quel pensiero, ormai sepolto e riesumato solo per le apparenze, dell’importante è partecipare. Persino nei tornei dei bambini scoppiano risse, che coinvolgono i genitori, con la deriva educativa che potete immaginare.

L’importante è vincere, sostengono i cialtroni. Invece l’importante è giocare, e non smettere mai d’imparare. Il grande Gaetano Scirea era l’ultimo a lasciare il campo d’allenamento. Dino Zoff non ne saltò mai uno. Johann Crujff rivedeva le sue partite dozzine di volte, per correggere gli errori. Oggi fanno i funamboli e tentano i colpi di tacco a tre minuti dalla fine, quando stiamo per perdere l’accesso ai campionati mondiali. Cose da mandarli a strigliare cavalli per sempre.

Il problema del calcio è mondiale. Un business economico troppo grosso per mantenerci dentro i valori che lo hanno sempre distinto. La corruzione dei vari Blatter produce un effetto cascata, che precipita verso il basso e tutto travolge. Alcune nazioni reagiscono, creando modelli propri (Spagna e Germania). Altre subiscono, regredendo (Brasile su tutti). In questa Italia indebolita da qualche decennio di stronzate televisive, dal trionfo totale del consumismo come mezzo culturale a cui si avvinghia la selvaggia liberalizzazione, il calcio ha anticipato il collasso quasi totale di ogni pensiero, la fine della responsabilità individuale, la nemesi del senso d’appartenenza; tutti i ruoli che un tempo chiedevano fatica e applicazione adesso sembrano invece alla portata di chiunque. Non è così. Si rassegnino, i giocatori, ma anche tutti gli altri: non sarete mai Pelè, non sarete mai Marquez, non sarete mai Picasso. L’insegnamento decisivo che non passa più è uno: il fallimento giova! Fa bene alla vita, dona consapevolezza e coraggio. Il modello di vincente a tutti i costi indebolisce. Solo la sconfitta permette di essere migliori.

Questo è il trucco che ci ha fregato: pensare che necessariamente si debba essere i primi, i migliori, gli unici. Non è così. Se gli azzurri avessero giocato con l’umiltà di Furino, avremmo battuto la Svezia per sei a zero.

Il fallimento calcistico è solo il sintomo di una malattia ben più grave. Una sintesi tra narcisismo collettivo, odio generalizzato, debolezza endemica e caratteriale di un popolo mammone e parassitario, cultura dell'ovvio e del consumo a tutti i costi. La squadra Italia esprime in pieno questi valori. Il bubbone è esploso: il gioco più bello trasformato in barzelletta, con giornalisti superficiali, dirigenti ingordi, speculatori d'assalto, e una torma di scemi che tutto sanno fare, tranne godere del gioco come tale.