Non chiamatemi Ismaele. Non ci sono storie da raccontare e gli uomini intorno al fuoco non sperano più che qualcuno dica loro: “c’era una volta…" Immagine: T. Gericault (Le Radeau de la Méduse)
Adesso lo so a che cosa servono i libri. A niente. Tutti dicono che leggere conta. Ma nessuno legge. Il verbo leggere ha subìto una metamorfosi. Come Gregor Samsa che da commesso viaggiatore si è risvegliato insetto. Così il verbo leggere, da verbo serio e importante che rimandava al campo semantico della cultura che è parente stretta della coltura, si è trasformato radicalmente in un verbo imparentato con le dicerie, con le cose “per sentito dire”: nessuno a piegarsi per raccogliere i frutti, tutti dritti e fieri a sputare dentro le cerbottane dell’offesa. Sembra quasi che noi umani ci siamo sbarazzati di quell’idea di cultura quasi per necessità di sopravvivenza: ed eccoci qua, con le pupille su e giù, un link dopo l’altro, un post dopo l’altro, in corsa verso la salvaguardia dell’homo digitalis. Non potevamo rischiare l’estinzione. E neppure lo smarrimento sociale, quello che ci porta nelle feritoie della solitudine dove non fa breccia il putiferio globale e permanente che ci tiene aggrovigliati religiosamente alla Rete. E allora eccoci pronti. A leggere? Giammai! Si vivacchia, disse un giorno un intellettuale meridionale e meridionalista. Non vivere, allora. Ma vivacchiare. Non leggere, allora. Ma leggicchiare. Starsene lì, ad aspettare centinaia di notizie che si srotolano appena sfornate dal demiurgo telematico, dal deus ex machina per il colpo di scena da teatro. Si leggicchia, direbbe quell’intellettuale oggi, se fosse ancora vivo. Si leggicchia come se non ci fosse un domani, con la bizzarria di questi anni in cui gli umani non trovano il tempo per recintare i momenti di (trascurabile?) felicità, ma si adoperano per intraprendere percorsi di vita virtuale eppure vera dentro quei microscopici palmari. Una vita virtualreale. Si leggicchia, scorrendo il cursore a mille per bassa soglia di attenzione. Si leggicchia, perché questo è il tempo della solitudine iperconnessa. Tutti meravigliosamente soli e insieme. Autistici socievoli, solipsisti nel gregge, onanisti di gruppo per acquisti rapidi su Groupon e lettorucoli di consigli per acquisti di week-end tutto compreso su Booking più che di “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Non chiamatemi Ismaele. Non ho nulla da dirvi. Ammesso che qualcuno di voi si sia incaponito a leggere questo tomo medievale, questo zibaldone enciclopedico, questo trattato ipertrofico e antigiornalistico, questo romanzo melvilliano, dove un capitano pazzo e storpio desidera soltanto una cosa: colpire la balena bianca. Non chiamatemi Ismaele. Non ci sono storie da raccontare e gli uomini intorno al fuoco non sperano più che qualcuno dica loro: “c’era una volta…”
Questo è il tempo delle competenze e delle ingiurie, questo è il tempo dell’affannarsi a fare fiato per dimenticare il grumo di dolore che non sappiamo più sopportare. E allora lo nascondiamo sotto al tappeto delle ipocrisie, e ci terrorizziamo all’idea che qualcuno inciampi nel bordo e ne sollevi un lembo. Potrebbe trovarci qualche scomoda verità oppure qualche affannoso amore o, ancora, qualche pagina sbiadita in cui la voce narrante, nella pace assoluta di un silenzio, cominci con queste parole: “Chiamatemi Ismaele.”