L’abisso di solitudine e disperazione nel quale silenziosamente si dibatte e che lui, ostinatamente, si era rifiutato di vedere
Seymour, say more about the american way of life.
Non avevo letto niente di Philip Roth, finora. E quindi mi son detto che dovevo assolutamente recuperare.
“Pastorale americana” è stato, forse, il libro più consigliato che mi sia mai capitato fra le mani e questo mi ha fatto superare la mia consolidata ritrosia per i volumi troppo corposi.
Quattrocentocinquantotto pagine, nella fattispecie.
Devo confessarlo: non sono entrato subito in sintonia con l’autore, ci ho messo qualche decina di pagine (mentre, per esempio, con Marquez è stato subito idillio, l’ho amato appena ho letto l’incipit di “Cronaca di una morte annunciata”, preludio all’approccio con “Cent’anni di solitudine”).
A quel punto, però, una volta rotto il ghiaccio ho realizzato che lo scrittore di Newark non si affida affatto alla ricercatezza e alla musicalità del testo, almeno in quest’opera, in quanto appare, semmai, interamente assorbito dalla complessità e unicità del progetto narrativo.
Un po’ come, passatemi l’esempio pedestre, se l’autore avesse preso a imprimere semplici puntini su un immaginario foglio bianco, i quali puntini all’inizio non suggeriscono assolutamente nulla al lettore ma, man mano che la punzonatura si avvia a essere completata, ecco che si rivela in chiaroscuro il duro, cinico, meraviglioso affresco della società americana contemporanea che Roth ha impietosamente descritto con la sua scrittura diretta, affilata, scevra da qualunque artificio ad effetto.
Occorre immergersi nella lettura, apprezzare la meticolosa analisi psicologica dei personaggi, a tratti persino ridondante, mettere insieme tutte le tessere del mosaico per comprendere appieno il cupo spaccato di quella middle class a stelle e strisce cresciuta col mito del sogno americano, che l’autore vede destinata a soccombere, schiacciata sotto il peso delle convenzioni, del conformismo e di un illusorio quieto vivere.
Emblematica la scena finale della cena in casa Levov durante la quale al protagonista, Seymour “lo Svedese”, crolla intorno tutto il mondo di apparente successo faticosamente costruito fin lì, rivelando l’abisso di solitudine e disperazione nel quale silenziosamente si dibatte e che lui, ostinatamente, si era rifiutato di vedere finché sua figlia, l’amatissima Merry, non lo ha costretto con la sua imprevedibile ribellione portata fino alle estreme conseguenze.
Lo Svedese, alto, atletico, imponente come una quercia, esattamente come un albero, nel bel mezzo della tempesta che sta devastando la sua esistenza, sta lì, immobile, a ricevere in faccia pioggia e grandine senza muovere un muscolo.
Mi era capitato di percepire la stessa sensazione di disperata solitudine in un altro caso, guardando il film “Gente comune” di Robert Redford.
Lì era la morte di un figlio, il prediletto Buck, a rivelare le sofferenze represse della madre Beth, qui è la deriva terroristica di una figlia a far emergere il vuoto pneumatico che anestetizza l’intera famiglia Levov e che ne determinerà la dissoluzione.