pezzo davide

"fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. Non divenire sgomitatori sociali, non passare sul corpo degli altri per arrivare primi"

La prima immagine che mi è apparsa nell'apprendere la storia di Giada, studentessa di Isernia suicidatasi pochi giorni fa all'Università Federico II di Napoli nel giorno della sua -inesistente- discussione di laurea è quella di Neil Perry, protagonista di uno di quei pochissimi film che mi hanno cambiato la vita, L'attimo fuggente, il quale nel pieno e nel silenzio di una notte innevata apre la finestra e sfiora la sua corona di Puck, emblema shakesperiano dell'amore. Una corona simile a quella di alloro di cui si è soliti essere cinti nel giorno della propria laurea.

Un'analogia malinconica, dal retrogusto dolceamaro, di certo tragica con la storia e l'esempio di uno studente simbolo di tutti coloro che non hanno o non hanno avuto coraggio: Neil, ovvero il figlio di chi lo vuole medico a tutti i costi, amante di quel teatro così lontano, vittima di un'impotenza che non gli è propria e del timore di scoprire in punto di morte "di non essere vissuto". Stretto nella depressione e nella morsa di un futuro obbligato, senza vie d'uscita, Neil, senza corona in testa in quella notte innevata, si suicida con la pistola del padre, carnefice dei propri sogni.

Neanche Giada indossava la sua corona d'alloro qualche giorno fa su quel cornicione della Facoltà di Geologia dell’Università Monte Sant’Angelo. La tenevano probabilmente in mano i parenti, gli amici, il fidanzato, accorsi per festeggiare quel traguardo tanto atteso ma in realtà ancora lontano. Non era il giorno di Giada quello, nonostante il ricevimento, le bomboniere, i preparativi: la scenografia ideale di un mondo troppo perfetto (e forse velatamente imposto) per un finale inspiegabile, premeditato ma improvviso, come quello del giovane Neil.

Non era il giorno di Giada quello, rimasta indietro per troppo tempo e troppo avanti per quelle scale e quelle porte, fino al terrazzo dell'Università. La telefonata, forse imprevista, del fidanzato, preoccupato dalla sua strana scomparsa, non le ha fatto cambiare idea, non ha smosso la paura per un gesto che da qualcosa avrebbe dovuto necessariamente liberarla. L'impatto, il terrore, le lacrime di due genitori di fronte a un corpo e a tante inspiegabili bugie riguardo un mondo inesistente fatto di lezioni ed esami (zero in quattro anni) di cui aveva convinto sé e gli altri.

Non avremo mai modo, nè il diritto, di sapere perchè Giada abbia deciso di morire così, nè allo stesso modo sapremo se a ucciderla sia stata l'effettiva impotenza di una vita non vissuta, di aspirazioni accantonate, percorsi imposti, o la fragilità. Di certo la sua storia, la sua fine, non è vana: gli insegnamenti sono gli stessi regalati dal professor Keating e come nel caso del professor Keating, anche oggi c'è un banco degli imputati da riempire.

Su quel cornicione Giada non era sola, c'erano ancora una volta la nostra scuola, la nostra società, le nostre famiglie: i bambini quando entrano in aula per la prima volta smettono di fare domande e cominciano a fare le gare: i Neil Perry e le Giada nascono già lì. La scuola non è una sfida, l'Università non è una competizione, l'istruzione non è un voto, nè un titolo, nè la soddisfazione da dare a chi ci circonda, tante volte non è realizzare il sogno di chi spesso ci sostiene. L'università, come tante altre cose, non è un obbligo ma una vocazione; proseguire gli studi (ma anche non farlo) è una scelta personale troppo spesso in mano ad altri. La scuola è o dovrebbe essere uno strumento per individuare, modellare e realizzare le proprie ambizioni. Erano più o meno i tempi de L'attimo fuggente quando una delle poche persone amate tra i banchi di scuola mi fece scrivere su un quaderno che l'uomo è fabbro delle proprie fortune, del proprio destino. Ma la società di oggi spesso non lascia spazio ai più deboli di essere fabbri, e il dolore che ha ucciso Giada probabilmente è maturato nel tempo, ancora prima delle bugie.

Il secondo imputato è la società in cui viviamo, di cui rappresentiamo miccia ed essenza al tempo stesso. Siamo ormai lontani dal 1959 del collegio maschile Welton, ma il suicidio di Giada è comunque l’emblema di una cultura (quella italiana) quanto mai obsoleta e spietata: la consacrazione personale (nel caso specifico le lauree o la caratura professionale) è uno status symbol. Viviamo immersi in una società liquida, nello stress dell'apparire sulle vetrine dei social, in cui un 28 è buono ma un 30 è meglio, le rivolte si predicano e basta e un titolo è una marcia in più o in meno. Una società che se non stai al passo ti fagocita. Ma al mondo non tutti stanno al passo, ci sono persone deboli, o sensibili, come Giada, come Neil, che preferiscono le bugie alla sconfitta. E allora l'albero che cade fa rumore, ma la foresta non cresce. Perchè la società odierna la sconfitta non la contempla, con buona pace di Pasolini, che decenni fa si auspicava una educazione specifica al valore della sconfitta, alla sua gestione, alla sua umanità per le nuove generazioni: "fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. Non divenire sgomitatori sociali, non passare sul corpo degli altri per arrivare primi". Sentirsi vinti, oggi, in una società che premia solo i migliori, ti porta sulla vetta di una facoltà e a lanciarti nel vuoto.

Anche le famiglie infine, i genitori, hanno un ruolo determinante nel regalare ai figli la libertà di scegliere. Al di là di una facile retorica, non è sempre così, nè per tutti. Obblighi o suggestioni come gli studi o la carriera non dovrebbero esistere, specialmente in tempi di crisi economica come il nostro. Dovrebbe essere un dovere seguire le proprie ambizioni, pronti a farsi male, con le spalle coperte da chi ci ama, a prescindere.

Non sapremo mai se a uccidere Giada sia stata la paura di deludere, la frustrazione di non poter scegliere, la consapevolezza di non essere in grado magari, la depressione. Di sicuro la sua tragedia ci ha indotti a riflettere, ancora una volta: in una delle scene più struggenti e significative del film sopracitato, Neil, nel momento in cui decide di suicidarsi, sorridendo tra le lacrime sospira "...sono proprio bravo...", riprendendo le parole del suo professore, intento a convincerlo che se non avesse preso in mano la propria vita e le proprie aspirazioni non avrebbe fatto altro che recitarla, quella vita. Neil assopisce le proprie passioni travolto dal peso delle responsabilità e degli sforzi dei familiari, ma quelle passioni vengono risvegliate dall’influenza di una persona amica: le persone muoiono in primis quando non riescono a comunicare o quando qualcuno è incapace di ascoltarle. Neil era un attore ma Giada fondamentalmente no: nessuno è stato in grado di capire, di smascherare.

Il riscatto di Giada è dunque nelle nostre mani, il più grande insegnamento che questa ragazza ha lasciato a tutti noi è proprio questo: non abbiamo forse il potere di decidere cosa possiamo essere per noi stessi, ma abbiamo il dovere di decidere cosa non dobbiamo essere necessariamente per gli altri: matricole, caselle da sbarrare, categorie; comunità virtuali, poteri d'acquisto, malattie. Tutte cose che siamo ogni giorno, perchè è così che va il mondo, dimenticandoci di essere i libri che amiamo, i talenti che possediamo, i sogni che custodiamo o semplicemente un orecchio amico per chi non ce la fa. Giada non ha conseguito la laurea ma una tesi l’ha scritta ed è davanti agli occhi di tutti, pronta da leggere: parla del diritto di poter scegliere ciò che vogliamo essere, e ciò che vogliamo essere determina tutto il resto, sconfitte comprese...il diritto a succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non è vita e allontanare il rischio, sempre quello…di non scoprire in punto di morte, di non esser vissuti.