La forma dell’acqua un piccolo gioiello nella costellazione cinematografica contemporanea
Ambientato negli Stati Uniti degli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda e corsa allo spazio, La forma dell’acqua ha una trama abbastanza semplice: una donna di mezz’età, sola e affetta da mutismo lavora come inserviente presso un laboratorio segreto del governo statunitense dove un giorno viene portato un mostro anfibio, catturato nella foresta Amazzonica e destinato ad essere vivisezionato per fare degli esperimenti. Tra la donna e la creatura nasce un amore che, pur nella tragicità dello svolgimento, avrà un lieto fine.
Una trama così semplice, e per alcuni versi banale, non spiegherebbe il grande successo – attestato da numerosi riconoscimenti ufficiali tra cui il Leone d'oro al miglior film alla 74ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia – dell’ultima fatica cinematografica di Guillermo del Toro. Ma c’è di più, molto di più. Sedimentati sotto la semplicità della trama, vi sono numerosi riferimenti, molteplici tematiche e costruzioni artistiche che fanno de La forma dell’acqua un piccolo gioiello nella costellazione cinematografica contemporanea. Nessuna film su una storia d’amore, anche se cinematograficamente ben resa, avrebbe retto una durata di oltre due ore senza scadere nello stucchevole e nel noioso.
Proviamo, allora, archeologicamente a scavare negli interstizi della pellicola per vedere quali cifre estetiche, filosofiche e politiche essa restituisce allo spettatore.
Innanzitutto il titolo. La forma dell’acqua è un riferimento, più o meno consapevole, ad Andrea Camilleri e al primo romanzo della serie del Commissario Montalbano. L’acqua, ciò che è informe per definizione, prende forma e diviene cifra guida di tutto il film. L’acqua come metafora del concetto di normalità: entrambi – acqua e normalità – prendono la forma che gli diamo con le nostre costruzioni. L’acqua è il nome del divenire; il mezzo che nel suo scorrere lega e slega le differenze.
Proprio i concetti di normalità, anormalità e differenza sono al cuore del film. Sembra di vedere riflesse sullo schermo le pagine del corso su Gli anormali tenuto al Collège de France da Michel Foucault negli anni Settanta, in cui vengono analizzati tre tipi di devianza: il mostro umano, l’onanista e l’individuo da correggere.
Nel film di del Toro ci sono tutti e tre. La protagonista, Elisa Esposito, affetta da mutismo, solitaria (i cui unici amici sono anch’essi due diversi, almeno per l’epoca in cui è ambientato il film, e forse ancora oggi: un artista gay e una donna di colore); una novella Amelie, che conduce una vita fatta di abitudine e nevrosi, il cui unico piacere consiste nella ripetizione quotidiana e meccanica di pratiche onanistiche – e proprio come nel film di Jean-Pierre Jeunet sarà l’amore a rompere la sua routine, anche quella sessuale (con l’apertura all’alterità). C’è il mostro umano. Una chimera, metà uomo metà pesce, che è stato catturato dal governo di Washington nella foresta del Sud America in vista di non specificati esperimenti che potranno rivelarsi utili per la corsa allo spazio tra Stati Uniti e Russia. C’è, infine, l’individuo da correggere, anzi sono due: il militare statunitense che conduce le ricerche sul mostro catturato, e il cui successo dipende solo da questo progetto, e l’infiltrato sovietico, uno scienziato guidato dal governo di Mosca a cui non è concessa nessuna possibilità d’iniziativa.
Anormalità e amore sono, dunque, i temi centrali della poetica di del Toro in questa pellicola. Tuttavia l’amore qui assume varie forme (come l’acqua) e mostra diversi aspetti dell’animo umano perfettamente rappresentati dal film. Innanzitutto l’amore erotico, nel senso greco del termine; è questo a rompere le corazze dei due mostri: di Elisa, ‘mostro’ dall’aspetto umano, e dell’essere anfibio, mostro più vicino al regno animale. Ma ad essere rappresentato è anche quell’amore fraterno, disinteressato e smisurato, che in greco prende il nome di agàpe; a questa categoria sono da ricondurre senza dubbio le azioni compiute da Giles, l’amico gay, e da Zelda, la collega di colore, che infrangono l’ordinarietà della loro esistenza in nome di qualcosa per cui valga la pena lottare.
Un appunto finale va fatto, certamente, alla colonna sonora. In un film i cui protagonisti sono una donna affetta da mutismo e un essere semiferino, la cui unica forma di espressione sono prima i guaiti e poi i gesti che impara dalla donna, la colonna sonora deve reggere l’urto di possibili momenti di vuoto. Se, dunque, il film è ben riuscito gran merito va anche alle musiche di Alexandre Desplat.