10 sapori e dissapori

La tipicità del gusto e della tradizione calabrese: "a struncatura"

 

Ma siete diventati tutti buoni? Sembra che agli italiani il cibo faccia l’effetto del Natale, ai critici gastronomici almeno. Eppure io il critico, scusate la tautologia, me l’ero sempre immaginato critico.

Avrò guardato troppe volte il film d’animazione Ratatouille e i signori autori di blog culinari raffinati e articoli gastronomici patinati me li ero sempre immaginati severissimi, dall’aspetto altero e dalle aspettative inarrivabili, così resto un po’ delusa quando, accingendomi a leggere una delle loro recensioni d’autore, devo tenere a portata di mano l’insulina per non svenire.

Sarà che tante volte i ristoratori quelle recensioni smielate le comprano, un po’ come fanno con le belle paroline scritte su TripAdvisor, solo più autorevoli e griffate, ma io di ristoranti cattivi, da loro, non ne ho mai sentito parlare: nessuno che abbia mangiato terribilmente e sia pronto ad esporsi per mettere in guardia il prossimo sfortunato avventore del locale, nessun buon gastro-samaritano pronto a stroncare cucina e servizio di ristoranti i cui piatti farebbero gola solo dopo avervi applicato tutti i filtri disponibili su Instagram. 

Il  critico gastronomico, in un mondo ideale, forte del suo sapere e del suo sentire, dovrebbe farsi beffe di querele e ristoratori improvvisati ma, in tempi di crisi, i gourmet si sono reinventati promoter e, in cambio di un tozzo di pane, una cena offerta o qualche centone, dispensano parole di marzapane descrivendo il ristoratore mecenate, redigendo poemi inneggianti a piatti sublimi, riconoscenti per servizi di sala eccellenti, invitando igastronomadi a fermarsi a ristorarsi in queste oasi del “buongusto”, albergate in location che nelle loro odi diventano luoghi ameni dove rinfrancare palati e spiriti.

Ma in questo quadro fatto solo di locali eccellenti, dove la critica, quella vera, molto spesso tace, qualcuno doveva pur supplire all’ingrato ruolo di paladino della gastronomia ed ecco ergersi a difensori del buon cibo al giusto prezzo un esercito di prodi gourmet dai gusti disparati e dal volto coperto (dallo schermo) che urlano a gran voce per la rete opinioni non richieste e sgrammaticate, lanciando spesso strali su conti troppo salati e porzioni poco generose.

Tra opinioni farcite di cattiveria, di chi cercando slealmente di vincere la concorrenza, compila recensioni un po’ troppo fantasiose e quelle di chi regala le cinque stelline in cambio di mezza pinta di birra, fidarsi dell’avviso di questi foodies zelanti diventa come affidarsi a Nostradamus per le previsioni del meteo della prossima stagione.

Può darsi che la vena polemica dei gourmet sia universalmente esaurita o che dilaghi la paura di essere etichettati come haters, fatto sta che sul web la stroncatura scompare, ma fortunatamente non tutta. È tornata in voga, grazie all’Expo 2015, ed è sempre più condita, quella che noi eaters maggiormente amiamo: la “struncatura” calabrese. 

Per farla occorre poco: mettiamo su una spianatoia mezzo chilo di farina di semola (anche se in passato venivano usati crusca e scarti della macinazione del grano), disposta a fontana, vi facciamo un incavo in cui versiamo un bicchiere d’acqua e un uovo, lavoriamo fino ad ottenere un impasto compatto e poi, con il prezioso olio di gomito, lo stendiamo e lo tagliamo a strisce più sottili delle classiche linguine. 

Cuociamo la nostra stroncatura in abbondante acqua salata e quindi la serviamo nella sua versione più classica: “ammuddicata”.

Tostiamo la muddica (il pangrattato) e la mettiamo da parte. Versiamo nella padella dell’olio, vi facciamo soffriggere l’aglio e aggiungiamo le acciughe, quando queste si saranno sciolte, uniamo l’immancabile peperoncino tagliato a pezzi e delle olive grossolanamente tritate. Aggiungiamo la nostra stroncatura cotta al dente e cospargiamo di pangrattato e prezzemolo. 

Voilà, un gioco da ragazzi: è semplice, costa poco ed è più facile farla che criticarla, la stroncatura è un piatto testimone della storia di una terra ricca di sapore e non sempre di risorse.