“Non avevo resistito. Pervasa d’amore per tutto ciò che incarnava le mie origini, avevo narrato i sogni del Sud, descritto i tratti reali dell’Aspromonte, e riportato la bontà, elevata al bisogno, della sua gente. Avevo scritto dei suoi uomini e delle sue donne al lavoro nelle terre, più in giù alle fiumare, tra gli ulivi e i castagneti. Avevo elaborato lo status dei bambini, i giochi con i parroccioli, le nocciole, i parenti, gli incanti, le feste, gli organetti, i tamburelli e le battenti. Le coppole girate e le sue pipe, le bancarelle e le vecchie botteghe. Avevo raccontato della Santa, di quella ’ndrangheta che se al Sud ci vai per caso o per cosa, non sai bene, non trovi così come ti aspetti. Avevo riconciliato fatti vicini e lontani di un popolo meridionale sincero, parlando dei riti pagani, delle celebrazioni sacre e della Vergine Santissima della montagna, col ventre sacro e il Bambino suo divino, che dormiva a porte aperte con il guaito lamentoso dei cani e dei lupi, notte e giorno, in pienissimo Aspromonte. Rivelavo, e finalmente, una terra misconosciuta, di cui nessuno ancora sapeva quale fosse la giusta faccia, e che tutti avevano il diritto di scoprire.”
Simona Giunta – nata in Calabria, trasferitasi bambina a Nord insieme ai genitori, giornalista della Stampa Nazionale, inviata, alla fine degli anni Settanta nella sua terra d’origine, dove, inatteso e imprevedibile, trova l’amore della vita – scrive un articolo che le costa il licenziamento. Il suo direttore “dall’Aspromonte, si aspettava i resti della morte, per comunicarne il lutto sul giornale. Battere le altre testate sul tempo, fornendo notizie rivelatrici pronte a crocifiggere la montagna calabra più di Cristo e più di Pietro. Di traverso. (…) C’era un Nord che non ammetteva ancora alla Calabria un trattamento reale. Non gioiva del suo bene, e la voleva per forza spellata viva, ridotta a culo di gallina.”
Assunta dal Corriere d’Italia, e inviata nuovamente in Calabria, Simona ha un approccio diverso: “La Santa, che a settembre mi era praticamente sfuggita, la incontravo e per la prima volta a dicembre. (…) La seconda volta l’Aspromonte mostrava un’altra faccia. Si presentava ufficialmente. La ’ndrangheta c’era davvero, e faceva il suo corso, da qui fino in capo al mondo.”
Si convince perciò che “l’Aspromonte, che possedeva le bellezze del mare pur essendo una montagna, e Ninazzu Malatesta, diavolo di un porco grasso, sarebbero presto diventati la malacarne della Calabria. Il cancro di una terra che si marciva dal di dentro, infettandosi tutto il corpo, senza mai più trovare riparo nemmeno alla settima generazione, che passata quella, finiva ogni possibile futuro. La morte certa dei figli per colpa dei padri. Il ruolo della famiglia d’onore investiva quei luoghi come una piena e senza pietà.”
I suoi articoli fanno scalpore e, più volte ripubblicati, le danno una visibilità che impatta negativamente sul suo privato mentre la rendono invisa alla ‘ndrangheta. Matura in lei la convinzione della necessità di una lotta culturale totale: “Quella terra va riconquistata. Rimessa a nuovo, perché il mondo le riconosca finalmente la sua grandezza, e la malavita non l’affossi uccidendola. Laggiù, in quel Sud lì, nelle membra della montagna santa, tutto tace. Le capre, i pastori, i paesi, subiscono i soprusi del potere maledetto; l’omertà disereda chiunque non la rispetti, e i collusi non si contano più.” E decide di mettersi personalmente in gioco: “Dovevo tornare per restare. Rimediare all’assenza, al sistema. Era questa la sola rivoluzione possibile. La fortuna che il Sud meritava di avere. Vivere rettamente laggiù, non era affatto inutile. (…) L’alternativa alla ’ndrangheta, non poteva e non doveva più essere il viaggio. La società d’azioni non doveva essere avvantaggiata dalle partenze. Doveva invece cominciare ad avere paura di chi restava. Di più ancora di chi tornava. Agire per il recupero definitivo dei luoghi e della gente, delle idee, delle speranze e dei sogni, della storia e della dignità dei suoi uomini e delle sue donne, a noi gente del Sud e di montagna, ci avrebbe fatto guadagnare un posto in paradiso. L’Aspromonte lo era. O comunque era a due passi dal suo cielo.”
Con Terra Santissima, Giusy Staropoli Calafati – scrittrice, poetessa, animatrice di iniziative culturali di grande impatto (suo è il Manifesto per chiedere al Miur che vengano inseriti nel normale insegnamento anche i grandi autori calabresi), amante di tutta la narrativa calabra e studiosa, in particolar modo, di Saverio Strati – conferma di essere la grande pasionaria della Calabria.
Simona Giunta è l’alter ego dell’autrice che vorrebbe farsi voce della Calabria intera, terra, mare, montagne, del suo retroterra storico e culturale, dei suoi pastori come dei suoi scrittori, delle sue tradizioni, della sua religiosità, dei suoi odori e sapori, della sua tanta gente perbene che prova a fare fino in fondo il proprio dovere.
*Giusy Staropoli Calafati Terra Santissima, Laruffa, pag. 169, prefazione Santo Giuffré, postfazione di Cosimo Sframeli