Manlio Rossi Doria, uno dei maggiori conoscitori della storia rurale del nostro paese, dirà nel dicembre 1944, che le campagne a diffusa proprietà contadina avevano “un’impronta meno servile, se non più libera, più suscettibile di libertà”.
Quella libertà i nostri contadini l’avevano cercata già nel primo dopoguerra. Parlando, ad esempio, di un’occupazione di terre fatta nel 1921 a Palmira Nuova – l’attuale Oppido Lucano, in Basilicata - Michele Stefanile, un bracciante scriverà: «Per i contadini era il vertice di tutte le speranze, - parecchi [la] intendevano come frutto e premio di tutte le guerre - per loro si era aperta l’epoca dell’acquisto, l’epoca della sistemazione [...] non si era più soggetti a fare i braccianti, o soggetti ai padroni». Al non essere più soggetti, all’affrancamento dai padroni si attribuiva la stessa importanza che agli aspetti economici, terra e libertà erano le facce di una stessa medaglia.
Ritroveremo le stesse emozioni durante le occupazioni che portarono alla Riforma Agraria del 1950. Lo prova, ad esempio un assegnatario di Policoro che, interrogato da un giornalista su cosa c’era di nuovo nella sua vita, risponde: «Da due anni non si fa più il baciamano al barone Berlingieri».
Per liberarsi da quella e da tante altre scorie feudali, già nell’autunno del 1943 dopo la liberazione alleata, le popolazioni del Materano diedero origine a un ciclo di lotte durate una decina di anni, molto più di qualunque celebrata lotta operaia. Di lotte non di rivolte, le rivolte non durano tanto a lungo e in ogni caso non le guidano i comunisti.
Meno che mai un partito come quello di Palmiro Togliatti che con la svolta di Salerno dell’aprile 1944 cominciò a puntare piuttosto sullo sviluppo e sul rafforzamento della democrazia nel nostro paese. E ciò anche in accordo con Stalin che -ha scritto Gian Luca Fiocco – in ossequio agli equilibri bipolari di Jalta non voleva che i comunisti dell’Europa occidentale cercassero il potere per via insurrezionale.
La fedeltà di Togliatti a queste consegne, insieme all’inclinazione del capo della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, a non risolvere la questione comunista con un atto di forza, fu tra gli elementi che resero possibile alla nostra giovane e debole democrazia di sopravvivere durante la guerra fredda e nei giorni dell’attentato al segretario del Pci (luglio 1948).
E ancora altre due cose il leader comunista aveva ben chiare: l’Italia dei ceti dirigenti era stata permeata a fondo dal fascismo ed epurarla seriamente non era possibile; né era possibile ignorare l’importanza che aveva nel nostro paese la chiesa. Facendo quindi inghiottire molti bocconi amari anche ai suoi, “il Migliore” -come era chiamato- contribuì a portarla fuori dalle macerie materiali e morali causate dal fascismo e nello stesso tempo a far sentire italiani anche i contadini, i pastori, i braccianti che soprattutto nel sud le erano rimasti estranei.
A mio avviso è all’interno di questo quadro, che appare oggi chiaro ma lo era assai meno all’indomani della caduta del fascismo, che bisogna guardare alle lotte per la terra nei nostri paesi. Per capire perché si ebbero bisogna ricordare che l’agricoltura era la principale e quasi unica fonte di vita in quegli anni ma che la terra non apparteneva se non in minima parte a chi la lavorava. Una situazione che aveva indignato persino il prefetto fascista Stefano Pirretti, un ferrandinese che si guadagnerà l’anticipata collocazione a riposo scrivendo nel giugno del 1939:
“Per poter liquidare completamente e definitivamente i residui del “vecchio mondo”, che tuttora vive ed opera in questa provincia unicamente ed esclusivamente agricola, occorrerebbe disciplinare –ma con leggi e non con improvvisazioni più o meno estemporanee e giovanili, che potrebbero sembrare anche demagogiche- il regime delle grandi proprietà rustiche.
Qui il latifondo è dato dal proprietario, che vive nei grandi centri, in affitto ad un industriale della terra, che è un vero e proprio sfruttatore e bagarino della stessa; sfruttatore quando la coltiva direttamente per trarre il massimo rendimento; bagarino quando sub affitta la terra meno fertile, che non è sua, al piccolo misero agricoltore che paga un canone per lo meno doppio di quello che in proporzione paga il bagarino”.
Ma perché l’eliminazione sia completa e definitiva occorre che il sub affitto sparisca, e con esso il bagarinaggio della terra; che il latifondista, il quale finora non ha voluto o saputo appoderare la sua terra, vi sia costretto da una legge che non si presti a sotterfugi, rassegnandosi almeno al non grave lavoro di trattare non coll’unico o i pochissimi bagarini, ma con i molteplici concessionari di poderi, i coltivatori diretti; che in fine il contadino capisca [che deve, ndr], e, se occorre, sia costretto a vivere con la sua famiglia nel suo podere e non nei piccoli centri abitati, dove tutte le energie fisiche e morali si arrugginiscono e poi si atrofizzano o incancreniscono nell’accidia, nel vizio o nell’odio reciproco”.
Ciò detto, qualche numero è indispensabile per capire di cosa parliamo. Nella nostra regione su 279.469 proprietà ben 229.166 erano fazzoletti di terra che non superavano i due ettari. Detto in altri termini l’82% delle proprietà aveva solo il 12% della terra. Sull’altro fronte, meno dell’uno per cento delle proprietà aveva il 38% della superficie. Questo dato è significativo ma non del tutto chiarificatore poiché indica le proprietà, non i proprietari il cui numero resterà forse il segreto meglio custodito della nostra Repubblica.
Bene, vengo finalmente a parlare di Montescaglioso, dove tutto cominciò.
Ai primi di settembre del 1944, il prefetto scriveva che “circa 200 agricoltori, nella maggior parte nullatenenti e reduci di guerra, non iscritti ad alcun partito e solo in pochi a quello comunista, lamentano che il vasto e fertile latifondo del conte Galante, sito in contrada Dogana, prossima all’abitato, dell’estensione di 1600 tomoli circa…sia tenuto in fitto da un solo agricoltore…che dal nulla è riuscito a raggiungere invidiabile posizione economica. Gli stessi gradirebbero che la tenuta fosse suddivisa in piccoli appezzamenti e data in fitto ai meno abbienti, disposti a corrispondere qualsiasi canone in modo da sollevarsi dalla miseria nella quale versano.
Secondo voci incontrollate, in caso di rifiuto l’avrebbero invasa. E a chi li invitava alla prudenza rispondevano che se non erano morti in guerra sarebbero morti nel loro paese e almeno il loro sacrificio sarebbe servito a qualcosa.
L’affittuario capitalista, convocato con altri agricoltori, si era detto disposto a subaffittare 50 tomoli ai più bisognosi e, soprattutto, aveva sollecitato le autorità a far dissodare una parte dei demani comunali per cederli in fitto agli agricoltori bisognosi con i quali si offriva di collaborare. L’affittuario in questione vedeva lontano ed era l’ex vice podestà al quale negli anni trenta il podestà e amministratore di Galante aveva ceduto l’intero tenuta che prima era suddivisa in circa centocinquanta quote.
“Tali misure, scrive il prefetto fascista Tamburro che il governo alleato aveva mantenuto rimasto in carica, hanno calmato gli animi e sono valsi a impedire qualsiasi incidente.”.
I contadini insistono per avere le terre alla Dogana perché si trova a pochi chilometri dal paese e quindi adatta anche a chi non ha “cavalcature” e l’affittuario capisce che bisogna placare gli animi e dividere la massa concedendo “bonariamente” e privatamente un po’ di terra. Per il resto spera di rifarsi con le quote delle terre demaniali presso Bernalda, terre lontane che gli assegnatari abbandoneranno come aveva previsto, in gran parte da dissodare e rivendicate anche dai bernaldesi.
Il 19 ottobre 1944 vale a dire nello stesso giorno della pubblicazione del decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte e malcoltivate la camera del lavoro di Irsina segnala 539 ettari considerate tali e ne chiede l’assegnazione. La commissione provinciale che s’insedia a Matera il 21 novembre dovrebbe deliberare su richieste di concessioni per oltre 7000 ettari. Il decreto prevede una celere procedura d’attuazione, ma per quell’annata agraria non si ottiene nulla poiché fra il tempo per creare e spesso improvvisare le cooperative e quello per esaminare le domande ed emettere il decreto d’assegnazione, il tempo delle semine passa.
Nello stesso anno un altro decreto assegna al mezzadro i 4/5 del prodotto e le camere del lavoro invitano i contadini a prelevare la parte loro spettante al momento del raccolto lasciando al proprietario l’onere di reclamare presso la commissione arbitrale se si ritiene insoddisfatto.
Ad arricchire infine il contenzioso fra agrari e lavoratori contribuisce la decretazione centrale e periferica per contrastare la disoccupazione con l’imponibile di manodopera.
Fanno parte delle commissioni comunali per decidere sulle varie questioni: sindaci, parroci, comandanti della stazione carabinieri e rappresentanti delle varie categorie agricole. Il voto degli amministratori è spesso decisivo e ciò infiamma la lotta per il controllo dei municipi. Tuttavia l’impegno, anche il più generoso dei sindaci democratici non basta a sanare bisogni così gravi e antiche ingiustizie. Lo proverà sulla sua pelle il sindaco di Tricarico Scotellaro che scriverà: Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore i vostri fiati caldi, contadini.
Gli effetti politici, di ricomposizione del tessuto sociale, di coinvolgimento nella vita politica di nuovi soggetti, prodotti dai vari provvedimenti del ministro Gullo sono immediati e straordinari.
Questo decreto era infatti sostanzialmente simile al decreto Visocchi del settembre 1919. Anche con questo la terra era data in concessione, in cambio di un’indennità da concordare fra le parti e per un periodo non superiore ai quattro anni. Fu quindi – ha scritto Piero Bevilacqua ne “Le campagne del mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra” - una misura che “non rivoluzionava una tradizione legislativa, né legiferava su un progetto di rivoluzione sociale. I contadini ricevevano la terra a titolo precario, mentre la proprietà rimaneva sostanzialmente non toccata nei suoi diritti. Esso era chiaramente l’espressione di un compromesso e di una mediazione politica fra i partiti di governo…”.
A parte questo il decreto aveva punti deboli che apriranno la strada a interminabili contenziosi.
Come l’art. 1 piuttosto vago nel definire cosa bisognava intendere per terre incolte. Di ciò era consapevole Ruggero Grieco che in occasione del convegno economico “Ricostruire” organizzato dal pci nell’agosto 1945 dirà: “L’applicazione di queste decreti fa sorgere numerose e lunghe vertenze; sembra che siano fatti non per i contadini, ma per gli avvocati. È evidente che le masse reagiscono contro queste differenti forme di sabotaggio e l’occupazione violenta delle terre incolte e mal coltivate si accompagna spesso ad episodi sanguinosi.”
Ed effettivamente I risultati pratici del decreto furono assai scarsi come si si comprende da unepisodio che impegnò a fondo il ministro. Questo: nel marzo del 45 la Società cooperativa operai industriali e agricoli (Scoia) di Montescaglioso, forte di novecento lavoratori iscritti a tutti i partiti, aveva chiesto la concessione del latifondo di proprietà della vedova Lacava in contrada Tre Confini che la tenuta del conte Galante di cui si è già detto. Grazie all’abilità dell’amministratore e dell’affittuario che avevano fatto dichiarare a un dirigente della cooperativa che, essendo le terre richieste tenute a pascolo, non potevano considerarsi incolte o malcoltivate, a quest’ultima si era rinunciato e la pressione dei contadini montesi si era allora scarica tutta sulla masseria dei Tre Confini.
La richiesta era stata regolarmente fatta e la seduta della commissione provinciale che doveva deliberare era stata fissata per il 10 maggio, ma all’ultimo momento il rappresentante degli agrari aveva telegrafato per avvertire che non poteva partecipare. Il prefetto aveva allora ordinato al presidente di riunire comunque la commissione perché –scrisse- “in questa provincia ancora non si è fatto nulla in questo campo e non bisogna quindi dare l’impressione che si rinvia continuamente”.
D’altronde aveva aggiunto qualunque decisione si fosse presa, non sarebbe stata definitiva poiché l’ispettorato agrario non aveva ancora effettuato il sopralluogo sulle terre da assegnare. Su questa base la federazione provinciale degli agricoltori aveva dato a un suo iscritto, “l’unico proprietario di terre che si è trovato sul momento disponibile”, l’autorizzazione a partecipare all’incontro e la commissione aveva potuto riunirsi.
Per dimostrare che la tenuta Tre Confini era mal coltivata, il rappresentante della cooperativa aveva presentato la scheda di denunzia della produzione granaria dell’annata agraria 1943-44. Da questa risultava che gli affittuari fratelli Andrisani, agrari, mugnai e pastai di una certa importanza a Matera, su 800 tomoli (circa 320 ettari) avevano seminato 7.000 quintali di grano e ne avevano raccolto 1079 quintali e ottanta chili. Uno sproposito, sicuramente una truffa riguardo alla quantità di sementi impiegati. Ma tutto serviva ad evadere gli ammassi obbligatori.
Della commissione faceva parte anche un funzionario dell’ispettorato agrario, l’ufficio che avrebbe dovuto controllare la veridicità delle denunzie di produzione, il quale non potendo sollevare dubbi su quanto aveva avallato qualche mese prima, si era rifiutato di controfirmare la concessione sottoscritta dagli altri perché il suo ufficio non aveva fatto il sopralluogo sulle terre da assegnare.
Precisamente come suggerito dal prefetto Adolfo De Dominicis che due mesi prima era stato cacciato da Grosseto in quanto incapace - recita la motivazione- a “tenere un ufficio pubblico di importanza e di autorità”. Ma forse non di incapacità si trattava-
Ad ogni buon fine, la proprietaria messa sull’avviso dall’accaduto era corsa fulmineamente ai ripari e in quello stesso giorno 10 maggio, a quattro mesi dalla scadenza del contratto con gli Andrisani, ne aveva stipulato un altro con i fratelli Quinto. I quali cinque giorni dopo scrivono al prefetto. “Non basta, come ha fatto la commissione, accertare che la produzione denunziata dagli attuali fittavoli è stata inferiore a quella che i terreni avrebbero potuto dare. Noi non vogliamo fare insinuazioni, ma perché non si dovrebbe poter sospettare che i fittavoli non hanno denunziato tutto il prodotto?” In ogni caso, aggiungono, se gli Andrisani non sono stati buoni coltivatori che colpa hanno loro sui quali si ripercuoterebbe il provvedimento dopo che questi, il 15 agosto, avranno lasciato la masseria?
Dopo altri cinque giorni la concessione è contestata dal procuratore della proprietaria. Nella forma perché, a suo dire, la commissione assegnatrice non era legalmente costituita in quanto il rappresentante degli agricoltori non aveva avuto una delega scritta. Nella sostanza perché mancante del parere tecnico dell’ispettorato agrario. Per concludere che se il provvedimento fosse diventato esecutivo, si sarebbe creato un precedente tale da legittimare le “occupazioni di tutte le proprietà terriere della provincia di Matera, poiché nessuna di esse potrebbe dimostrarsi di essere meglio coltivata di quella dei “Tre Confini”. Deposto il bastone aveva poi offerto la carota di rito, una carotina:100 tomoli da fittare a prezzo equo per andare incontro ai contadini più bisognosi di Montescaglioso.
Informato della faccenda, il 9 agosto il ministro Gullo aveva chiesto al prefetto di sottoporre a riesame la pratica sui punti controversi per perfezionare la concessione alla cooperativa. Non aveva ottenuto risposta ed aveva ripetuto la richiesta il 16 agosto esprimendo poi meraviglia e disappunto per il rigetto della concessione alla cooperativa deliberato il 31 agosto con motivazione “perfettamente opposta” a quella del 10 maggio. Tornerà a scrivere il 25 settembre e il 3 ottobre e gli sarà risposto solo il 20 ottobre. Apprenderà allora che, nel secondo pronunciamento sulla questione Tre Confini, la commissione provinciale aveva ritenuto, in base alla denunzia di produzione dell’annata agraria 44-45, che la tenuta fosse tanto ben coltivata da superare la produzione avuta nel resto del circondario.
Una beffa. Non per questo, aggiunge l’ineffabile prefetto, i nuovi affittuari fratelli Quinto si sono sottratti ai loro doveri di solidarietà poiché hanno messo a disposizione dei contadini ben 425 degli 800 tomoli da cui la tenuta è formata, e ciò insieme ad altri 600 tomoli bonariamente concessi dagli altri grandi proprietari dell’agro aveva reso possibile soddisfare le richieste di tutti i contadini veramente bisognosi.
Quanto alla gestione di tali terre, assicura, la questione si era risolta a Montescaglioso e andava risolvendosi nell’intera provincia, nel modo migliore dal momento che “i contadini preferiscono la gestione diretta ed indipendente” poiché privi di spirito associativo.
Sullo sfondo del complesso e truffaldino iter burocratico che abbiamo provato a delineare, dal 27 luglio a metà settembre a Montescaglioso si hanno manifestazioni e occupazioni simboliche della tenuta da parte dei richiedenti la concessione. Il procuratore della proprietaria le denuncerà come fatti di così grave sovversione da andare oltre il campo dell’interesse privato “per investire quello più vasto dell’ordine giuridico costituito e della sicurezza dei cittadini nella loro vita e nei loro beni”.
La presa di possesso da parte dei Quinto fissata al 15 agosto era stata spostata a data da definire, ma quando la sera del 31 era giunta notizia dell’annullamento della concessione alla Cooperativa tutto il paese era entrato in agitazione. Il 10 settembre i fratelli Quinto avevano preso possesso della masseria e quella sera stessa a Montescaglioso era arrivato un funzionario dell’ispettorato agrario per fare opera di convinzione sul sindaco. I dimostranti avevano chiesto di parlargli e, ottenuto un rifiuto, avevano tentato di linciarlo. A sua difesa era intervenuto un commissario di polizia, ma fatto ostaggio dalla folla era poi stato portato insieme al sindaco socialista ai Tre Confini per imporre ai Quinto di abbandonare la tenuta.
Vi erano arrivati alle 21,30 e il commissario per trarsi d’impaccio aveva chiesto di lasciare l’azienda e i Quinto avevano fatto finta di aderire. I dimostranti erano tornati in paese al canto di Bandiera Rossa e avevano sfilano in corteo fino a notte fonda. Ai carabinieri che li invitavano a sciogliersi avevano risposto malamente qualcuno aveva cercano di sfondare la porta della caserma. I militi avevano sparano per aria, ma all’ingresso del paese altri colpi d’arma da fuoco andati a vuoto avevano investito la camionetta dei carabinieri di ritorno dai Tre Confini.
Qualche ora dopo in paese era arrivato il famigerato battaglione San Marco e una decina di iscritti alla cooperativa erano stati arrestati.
Il 18 settembre il prefetto comunica al comando territoriale di Bari che i marò sono stati utilissimi a “prevenire gravi disordini” e dispone il rientro di 60 uomini, ma chiede che un reparto vi resti fino a “cessazione bisogno”. Il 25 settembre l’Unità titola “A Montescaglioso c’è lo stato d’assedio” parla del coprifuoco e delle bastonature di chiunque azzardi una protesta.
Il sindaco socialista Giudino Cifarelli chiede la liberazione degli arrestati sostenendo che la popolazione di Montescaglioso “è mite, timida e pacifica, solamente colpevole di voler lavorare per conto proprio!”
La direzione del Pci invia sul posto un funzionario che poi comunica alla sezione di Montescaglioso di avere interessato alla questione Palmiro Togliatti e il capo del governo Parri e assicura che la questione Tre Confini si risolverà a favore dei contadini. Non sarà così perché nel dicembre il suo governo cadrà.
Non sarà così e il frutto di due anni di passione ammonterà a qualche fazzoletto di terra concesso “bonariamente” cioè all’interno degli antichi rapporti di terraggeria e bagarinaggio che tanto indignavano il prefetto fascista Pirretti.
Sarà poi un altro prefetto, Giorgio Aurelio Ponte, arrivato a Matera nel novembre del 1945, che avendo constatato, scriverà, che “i proprietari terrieri si dimostrano avidi e chiusi alla comprensione dei bisogni del bracciantato e delle esigenze dei tempi nuovi”, il 3 settembre 1946 emana un decreto che prevede la concessione a cooperative del 15% delle proprietà dai 40 ai 150 ettari e del 20% di quelle d’estensione superiore. Un attacco radicale al latifondo che investiva tutte le terre a grano, indipendentemente da come erano coltivate.
La sua applicazione avrebbe portato all’assegnazione di circa 40 mila ettari di terra in provincia di Matera. Il giornale economico “Il Globo” definirà l’iniziativa una “singolarissima anticipazione della riforma agraria”. Il secondo pesante attacco arriva il 20 ottobre 1945 quando a Matera, in presenza di Attilio Sansoni, il segretario nazionale della Confida (la futura Confagricoltura) gli agrari sono esortati ad opporsi anche con le armi alla sua applicazione.
Il prefetto Ponte scampato all’epurazione diventerà un mito per i contadini ma il suo provvedimento sarà annullato e lui stesso nel maggio del 1947 sarà trasferito.
*L’autore di questo saggio è figlio di un contadino ucciso nei moti dei contadini degli anni ’40 del secolo scorso per la conquista della terra.