di GIOACCHINO CRIACO - Se dedicassi il mio tempo a liberare dalle cartacce il lungomare, il comune mi potrebbe pagare i sacchi per la raccolta. Se mi dovesse pagare il lavoro sarebbe più corretto assumere un addetto, secondo criteri di equità o di bravura o, comunque, parametri obiettivi.
Il bene non si paga, gli si riconosce il valore, lo si loda, ma non può essere una professione remunerativa, siccome costa e lo Stato non se la può cavare con i riconoscimenti degli enti spirituali, a chi fa opere di bene, di riconosciuta utilità, se il benefattore lo chiede gli si possono alleviare le spese. Inventarsi professionisti del bene è un’altra cosa, il lavoro è uno scambio di prestazioni, opera per compenso, a cui tutti hanno diritto ad accedere in condizioni paritarie.
Se a un bravissimo medico, che con le sue capacità professionali potrebbe guadagnare cospicui compensi, gli si danno risorse per vivere e curare i bisognosi, non gli si paga un lavoro ma viene supportata un’opera di beneficienza, così a chiunque dona le sue capacità qualificate per un fine nobile e a detrimento delle sue economie.
Ma se io facessi dei libri mediocri, che non mi acquistano nemmeno in famiglia non dovrei pretendere fondi con la scusa della diffusione della cultura.
Diciamola chiara, e tutta, fare bene è diventato un escamotage per trovarsi un lavoro, una pratica diffusa che sarebbe banale circoscrivere all’ambito della lotta alle mafie e limitare allo stereotipo del professionismo dell’antimafia.
Il bene è un affare, una via traversa per mettersi con i piedi al fuoco, un sistema retributivo che il potere si sceglie, si coccola e sovente si compra. Una stortura che rischia di travolgere anche le tante utili esperienze nobili, che mortifica l’impegno sano di moltissimi. C’è chi il bene lo fa agli altri e chi solo a se stesso, e per eliminare i secondi non si deve spazzare via anche i primi. Si deve distinguere fra chi opera bene e chi lo fa male, fra chi chiede un sostegno che è un di più rispetto al notevole sacrificio personale e chi ambisce a un preponderante sussidio pubblico rispetto a un esiguo o mediocre apporto personale.
Il bene non è una professione, è un moto dell’anima, un darsi con nulla in cambio se non un appagamento della propria coscienza. Lo Stato, gli enti pubblici, la carità privata non possono pagare la mediocrità di presunti benefattori, debbono supportare la dedizione delle eccellenze. Se quel che si cerca, con la scusa del bene, è un lavoro si pratichino le strade del sacrificio. E se veramente ci si vuol donare al mondo si chiedano al massimo dei rimborsi spese non gli stipendi.