IL PREGIUDIZIO CALABRIA. Quando i napoletani crearono il calabrese-pipistrello

IL PREGIUDIZIO CALABRIA. Quando i napoletani crearono il calabrese-pipistrello

 Melancolia I      di GIUSEPPE GANGEMI* - Il maggiore contributo che la Calabria ha dato alla letteratura italiana è certamente il personaggio di Galiziella (che si evolve e diventa, con qualche differenza, Bradamante) e il tema dell’amore (e del rispetto) tra nemici.

Un tema che rimane presente

nella letteratura italiana fin quando Galiziella o Bradamante rimane protagonista di opere letterarie (cioè per quasi tre secoli, dalla fine del XIV secolo al 1620, per le versioni scritte, e per quasi sette secoli per le versioni orali). Purtroppo, di questo personaggio se ne parla poco nei libri di testo perché le più antiche versioni orali, probabilmente in greco-calabrese, sono state trasferite in manoscritto, per la prima volta, in lingua normanna senza il personaggio di Galiziella e solo successivamente, in lingua italiana, con il personaggio di Galiziella (I cantari d’Aspramonte, di autore sconosciuto e il romanzo Aspramonte, di Andrea da Barberino).

Di Galiziella si comincia a parlare nei manuali di letteratura quando prende il nome di Bradamante, nel 1494, con Matteo Maria Boiardo che lascia incompiuta un’opera dal titolo Orlando Innamorato. Quest’opera viene pubblicata a stampa nel 1495. Nel 1516, Ludovico Ariosto pubblica la prima edizione dell’Orlando Furioso che comincia da dove si è fermata l’opera di Boiardo. Poi, nel 1532, Torquato Tasso inserisce Bradamante nell’Orlando Furioso. Queste opere hanno molto successo e incuriosiscono molti lettori che vogliono sapere di più sui paladini di Carlo Magno, su Bradamante, etc.

Appena qualche anno prima della pubblicazione dell’Orlando innamorato, un anonimo pubblica un’edizione a stampa di una Canzone d’Aspramonte. L’incunabolo, stampato da Jacopo di Carlo e Piero Bonaccorsi, manca di ogni indicazione relativa all’anno. Marco Boni data questa pubblicazione al 1487-90.

Questo poemetto, con modifiche più o meno ampie, ma mai per mano di un poeta o narratore paragonabile ad Andrea da Barberino o all’autore dei Cantari d’Aspramonte, verrà ristampato numerose volte, fino al 1620, per sfruttare la curiosità sui personaggi che suscita la popolarità delle opere di Boiardo, Ariosto e di Tasso. Con il 1620, l’oblio comincia lentamente a scendere sopra la Chanson d’Aspremont. E da quel momento, il rispetto reciproco tra nemici o avversari diventa secondario nella letteratura italiana.

I Calabresi saranno i primi a risentirne.

Più o meno nel 1516, anno in cui Ariosto fa raggiungere a Bradamante il massimo dell’espressione artistica, Albrecht Durer pubblica una incisione (nel 1514), in cui sono presenti due figure che, opportunamente interpretate e utilizzate, sono destinate a seguitare (o perseguitare) in Calabresi nei secoli a venire.

La prima di queste è il pipistrello che si vede, in alto a sinistra.

Sono i Napoletani che, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, cominciano ad attribuire ai Calabresi lo stereotipo del pipistrello (e relativa nomea di melanconici, presente come scritta nelle sue ali aperte).

Dopo che l’abbinamento calabrese/pipistrello si è affermato, appena in teatro viene presentato un Calabrese, vestito con un lungo tabarro nero, è sufficiente che apra il tabarro e lo tenga, con le braccia ben distese, aperto ai lati, e il pubblico scoppia a ridere.

Perché? In parte per quella mancanza di rispetto che si viene a perdere, in parte perché la canzone malinconica che caratterizzava fino a metà del XVI secolo l’intero Meridione, si evolve, nella prima metà del secolo, a Napoli, nella canzone allegra e scanzonata della Villanella. Questa ottiene un grande successo in Europa e apre la lunghissima stagione della canzone napoletana che, per quattro secoli, ottiene, ciclicamente, larga eco internazionale. I nuovi ritmi allegri e gioiosi della Villanella influenzano lo sviluppo successivo della canzone meridionale, tranne che per la musica calabrese. Questa non si lascia influenzare dalla gioiosa musica napoletana e rimane tradizionalmente melanconica.

Hanno motivo i Calabresi di essere melanconici nel XVI secolo? Certo che si! Dopo l’invasione di Carlo VIII di Francia nel 1494, la Calabria passa in secondo piano nella strategia di difesa del Regno e questo porta a concentrare al Nord di Napoli (a Gaeta e dintorni) le risorse per la difesa. I Calabresi sentono subito che sono destinati ad essere, come già era stato con i Bizantini nell’VIII-IX secolo, abbandonati a se stessi nei confronti delle offensive turche. E così sarà.

Diventati meno essenziali per la difesa di Napoli, i santuari e le parrocchie più ricche (le cui proprietà venivano precedentemente affittate ai combattenti contro gli infedeli) vengono affidati a nobili napoletani, romani o spagnoli o comunque sempre alle stesse famiglie che usano le relative proprietà per arricchirsi o ingrossare i propri patrimoni (vedi il ruolo della famiglia Zerbi che gestisce per oltre un secolo la carica nella ricca Parrocchia di S. Cristina d’Aspromonte). Inoltre, anche la decisione di cacciare gli Ebrei e quella di massacrare Valdesi e altri protestanti (oltre a vari cattolici che vengono uccisi, dopo false accuse di eresia, per poterli derubare delle loro proprietà), deprime (come scrive Girolamo Marafioti nel 1601) l’economia della Calabria.

L’accusa di melanconia riaffiora carsicamente nella storia della Calabria, ormai da circa cinque secoli. Per esempio, riaffiora nel 1792, nel Giornale di viaggio in Calabria, di Giuseppe Maria Galanti, che segnala luoghi insalubri, pieni di acque stagnanti e fetide, mentre racconta i Calabresi come melanconici, biliosi, etc.

Riaffiora ancora in Cesare Lombroso, nel 1862, il quale descrive i Calabresi come melanconici e biliosi, prima di aggiungere che sono anche briganti, criminali nati e cannibali.

*docente UNIPADOVA