di GIUSEPPE GANGEMI - In un cimitero dell’Aspromonte c’era, fino a qualche tempo fa, non so se ci sia ancora, la foto di un defunto con un fucile in mano. Una persona che, da ragazzo, avevo conosciuto: un tranquillo padre di famiglia, onesto lavoratore come c’erano tanti nei paesi intorno. Quell’immagine con il fucile non sembrava appropriata a qualche mio coetaneo che apparteneva a famiglie che “si annacavano”. “Ci meri propriu ‘u fucili ’nte so’ mani”, era stato l’ironico commento di uno di loro a quella foto.
Il problema che mi faceva riflettere da ragazzo, e al quale non sapevo dare risposta, non era quello di sapere se quel defunto “si annacava” o meno. Il problema che sollecitava le mie cellule grigie era il seguente: le tombe di ‘ndranghitisti mostravano, nelle foto, un viso dolce (da far combaciare, nei limiti del possibile, con le lodi della lapide: “esemplare padre di famiglia”, etc.). Se per quel defunto i parenti avevano scelto quella foto, è probabile che dipendesse dal fatto che era l’unica che quell’uomo si era fatto fare nel corso della sua vita. Ed il mio problema era: perché prendere un fucile in mano per farsi fare quell’unico ricordo per i discendenti?
Ventotto anni fa, ho portato mia madre a vedere i Bronzi di Riace, appena restaurati e collocati nel Museo di Reggio Calabria. Lei, piccola di statura, ha guardato a lungo le due statue girando loro intorno con una faccia perplessa. Timoroso che fosse scandalizzata del fatto che erano nudi, le chiesi: “Che pensi, mamma?”. Mi rispose: “Belli sono belli. Ma questi sarebbero nostri?”. Non intendeva “nostri” nel senso di proprietà nostra, ma nostri antichi guerrieri in relazione alla fisionomia, non certo imponente, del Calabrese. Mia madre non metteva in dubbio che i Calabresi fossero stati (e fossero) grandi guerrieri. Metteva in dubbio che, così alti, rispetto alla statura media delle nostre razze, i bronzi potessero essere stati antichi Calabresi.
Se penso alle certezze di mia madre (che mai ha dubitato della bellicosità dei Calabresi) e se penso alla foto del defunto con il fucile (e alle tante foto, fatte in laboratorio, di calabresi con fucile e, a volte, con una pistola), mi convinco che nei Calabresi c’è una memoria atavica che li porta a considerarsi come un popolo di guerrieri.
Un popolo che, come ci dice la nostra storia, ha combattuto e difeso l’Europa dai Saraceni e dai Turchi per circa un millennio, spesso da solo, abbandonato dai suoi governanti. I Calabresi, nel VII, VIII e prima metà del IX secolo, lasciati soli dai Bizantini, rivelatisi impotenti, dopo la sconfitta nella battaglia degli alberi del 655, si difesero comunque strenuamente dai Saraceni. Nella seconda metà del IX e nei secoli successivi la Calabria fu difesa dai suoi governanti perché considerata il perno della difesa meridionale del Mediterraneo (e con i Normanni, si riuscì anche a scacciare gli Arabi dalla Sicilia). Dopo il 1494, la Calabria fu abbandonata di nuovo perché la minaccia dei Turchi passò in secondo piano rispetto alle invasioni da Nord.
Ed ancora una volta, i Calabresi si dovettero difendere da soli per il decennio 1670/80. I Turchi, infatti, fecero un numero così elevato di incursioni da configurarsi come un tentativo, fallito, di vera e propria invasione. Furono ricacciati sempre e, nel 1683, i Turchi cambiarono strategia puntando a sfondare le linee difensive europee attraverso l’assedio di Vienna.
Data questa gloriosa storia, non è incredibile che nella psiche dei Calabresi sia rimasta impressa l’idea di se stessi come grandi guerrieri. E riavvolgendo il nastro della nostra identità, tradotto in immagini simboliche, andando a ritroso, possiamo ritrovare: il Calabrese fotografato con il fucile in mano (a torto scambiato per ‘ndranghitista da chi non conosce la nostra storia); il Calabrese raffigurato in stampe con l’accetta e il coltello; il Calabrese raffigurato, nelle miniature medioevali, al seguito dei suoi religiosi, con la Croce e la spada (immagine ripresa e rielaborata dai Sanfedisti); e, perché no?, andando più indietro, l’immagine dei Bronzi di Riace.
Mi permetto di chiudere con un sogno: per la costruzione dei Bronzi, vi è un generale accordo (l’Atene del IV secolo a.C. dove sarebbero stati fusi); per la destinazione della nave che li ha portato nella nostra penisola, sono state avanzate molte ipotesi diverse. In questa generale incertezza, provo ad aggiungere, alle tante esistenti, una mia personale ipotesi: che le statue fossero state inviate, via mare, da Bisanzio, verso la Calabria e che le navi avessero viaggiato tenendosi alte nella traversata dello Ionio per limitare il rischio di imbattersi in navi saracene provenienti o dirette verso il Porto di Messina (città conquistata dai Saraceni nell’843). Daterei questo trasferimento a qualche anno dopo l’878 (data in cui i Saraceni hanno conquistato Siracusa) e i Bizantini decidono di spostare le loro linee difensive in Calabria.
A partire da questa seconda data, comincia a svilupparsi, oralmente e trasmessa dai cantastorie ambulanti, l’epopea della Chanson d’Aspremont. I guerrieri avrebbero potuto essere il giusto coronamento di questa nuova epopea e un riconoscimento del ruolo affidato a Reggio Calabria e all’Aspromonte.
La mia ipotesi è che la loro collocazione fosse prevista in un punto elevato della città di Reggio Calabria, in vista del mare e dello stretto a monito dei Saraceni e manifestazione visibile della grandezza del popolo calabrese destinato ad ergersi e distinguersi a eroico difensore delle proprie coste, della propria fede e dell’Europa intera.