dI GIUSEPPE TRIPODI - Se ne è andato a novant’anni, a Scandicci dove viveva da tanto tempo, Saverio Strati senza dubbio lo scrittore calabrese più famoso della seconda metà del Novecento.
Tutti i suoi romanzi, con l’eccezione di Terra di emigranti (1979) uscito per i tipi di Salani, sono stati pubblicati da Mondadori: da La teda (1957) è stato tratto un film, per Tibi e Tascia (1960) ricevette il Premio Internazionale Veillon, con Il selvaggio di Santa Venere (1977) vinse il premio Campiello ma tutto ciò non gli ha dato né la felicità né, tantomeno, la sicurezza economica; tant’è che cinque anni fa ci volle un movimento di opinione di cui fu promotore il mai abbastanza compianto Pasquino Crupi (su di lui aveva pubblicato Saverio Strati e la letteratura di invenzione sociale per un’editrice vibonese, un profilo ne I CONTEMPORANEI per l’editore Marzorati, ma anche numerosi altri articoli sparsi in numerose riviste) perché gli venisse assegnato il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli per gli scrittori in difficoltà.
Sulla sua personale diaspora scrisse cose essenziali Walter Pedullà, un altro dei grandi che, nato in Calabria, ha sviluppato in altri lidi la sua attività di critico letterario e di accademico:
“Strati partì per non tornare. Lui che viveva per scrivere e di scrittura vive da allora in eroica solitudine a Scandicci. Brevi viaggi in Calabria, come per rifornirsi di storie, di parole, di personaggi e di paesaggi; sempre più degradati, sempre più devastati dalla ‘ndrangheta. E il narratore lirico diventò un romanziere offeso e disperato. Non ha smesso un giorno di scrivere, in progressiva indigenza. Di talenti narrativi come il suo non se ne vedono tanti in giro. Qualunque cosa tentava di dire era un bel racconto malinconico e nostalgico che quando non ce la fa più urla dal rancore per l’occasione perduta dal Sud”.
E con il tempo quella malinconia e quel rancore, uniti al malessere della vecchiaia, erano diventati pudore e fobia anche verso amici che gli erano cari e che ha lasciato fuori dalla porta.
La fedeltà alla Calabria di Strati ha fatto sì che i maggiori filoni della sua produzione letteraria venissero mutuati dai problemi secolari della regione, spesso intrecciati tra di loro in una spirale che dà in ogni romanzo aria alla narrazione.
Strati era insomma uno scrittore monotematico e ciò ha contribuito da un lato ad esaltare e mettere all’ordine del giorno le problematiche legate alla realtà antropologica, sociale e culturale calabrese ogni qual volta la pubblicazione di un libro attraeva i riflettori sulla condizione della sua terra d’origine ma, nel lungo periodo, ha costituito un indubbio limite per la sua creatività.
I temi dei romanzi di Strati sono: il viaggio (fuga e ritorno), il tempo nella duplice articolazione di passato e futuro, il conflitto intrafamiliare talvolta incentrato su una sorta di rovesciamento del paradigma edipico (conflitto madre-figlio al posto di quello classico padre-figlio) e, buon ultimo, il tema ndranghetologico.
Quello della ‘ndrangheta ha costituito il nodo gordiano in cui molti riferimenti autobiografici stratiani si sono avviluppati e sviluppati in modo difficilmente districabili. Con la precisazione che autobiografia non deve necessariamente intendersi come riferimento a vicende che lo scrittore ha vissuto personalmente e direttamente, come era capitato a Don Luca Asprea ne Il previtocciolo ricco persino di condivisione della humus dell’onorata società.
Anzi in tutti i romanzi di Strati emerge un’opposizione radicale, persino oltre il segno dell’equilibrio, al mondo della società che si crede onorata.
Possiamo immaginare lo scrittore che ha conosciuto molti ‘ndranghetisti, si è impadronito del loro linguaggio, forse ha anche manifestato la sua insofferenza verso di loro nell’età e nei luoghi in cui l’ipertrofia dell’autostima è indispensabile per non soccombere e per non passare da vigliacco: e, in conseguenza di ciò, ha avuto i suoi incubi, le sue esperienze reali dell’immaginario avrebbe detto Freud, che ha esorcizzato e sciolto nella scrittura.