di NICOLA FIORITA - “E vidi Catanzaro con le sue stradette e il suo budello centrale dove tutti si riversano per ammirare ed essere ammirati”.
Nel 1975, Saverio Strati pubblica con la casa editrice Mondadori E’ il nostro turno. Quello che ancora oggi - a trent’anni dalla sua uscita – appare un libro straordinario, ambientato in buona parte a Catanzaro, resta incredibilmente sconosciuto alla maggior parte dei catanzaresi, nonostante il generoso tentativo compiuto da Roberto Messina nel 1996 di rimetterlo in circolazione attraverso una nuova edizione.
Al centro del romanzo sta un giovane studente che si trasferisce a Catanzaro dal suo paese natale, non identificabile ma situato nella Provincia di Reggio Calabria, per terminare il Liceo. Ma i veri protagonisti del volume sono i luoghi, le persone e i bisogni di Catanzaro e, più in generale, della Calabria. Strati si affida totalmente alla forza impetuosa delle sue parole e la trama del racconto resta esile e sfuggente per lasciare che la potenza della vita possa esprimersi compiutamente. Una scrittura semplice racconta l’esistenza di gente semplice che, con le proprie incertezze e le proprie debolezze, matura lentamente una ribellione profonda all’atavico destino di sfruttati e di emarginati e costruisce pezzo per pezzo la propria idea di rivolta. Una rivolta a volte sorda, tentennante, dubbiosa ma anche una rivolta totale, che si scaglia contro le grandi sopraffazioni come contro le più piccole ingiustizie.
Strati ha regalato alla città di Catanzaro pagine davvero meravigliose, salvando dall’oblio quelle figure di camerieri, di sottoproletari, di piccoli commercianti che mai nessuno in questa città ha raccontato. C’è in questo libro la stessa semplicità e lo stesso incanto che si annusa nei libri di Vasco Pratolini che raccontano la Firenze di inizio novecento e che ancora oggi fanno rimpiangere quella città popolare e sincera che a un certo punto è diventata troppo ricca e famosa per poter sopravvivere. Ma se Firenze ha ricambiato in tutti i modi l’amore dell’autore di Metello, Catanzaro – come detto – ignora colpevolmente quelle pagine che la descrivono com’era: più povera, certo, ma anche estremamente dignitosa e forse più colta e più accogliente di quanto non sia diventata.
“Andiamo spesso a Bellavista che è un magnifico balcone sulla pianura fino al mare dove un giorno certamente si estenderà la città, se i politici locali che dominano e sono potenti, non hanno interesse verso altre zone”.
Per capire cosa siamo diventati e perché ora siamo così, a volte serve ricordare cosa eravamo e cosa avremmo potuto essere. E il giovane studente che vive a Catanzaro negli anni ’60 ci mostra chiaramente quelle che erano le possibilità che si dischiudevano trenta-quaranta anni fa. Ci mostra un Sud che sta rialzando la testa, che ricorda ancora lo sfruttamento millenario cui è stato sottoposto, che sente sulla pelle un passato di miseria e di ignoranza ma che per la prima volta vede la luce. E insieme alla luce vede le ombre, vede i nemici del progresso, della giustizia sociale, del rinnovamento. Da una parte stanno le speranze collettive dei figli dei contadini, degli emigranti, dei disoccupati e, dall’altra parte, stanno i nuovi potenti, tutti dediti a edificare le proprie fortune e a piantare le fondamenta di uno nuovo sfruttamento. Strati, e per lui il giovane studente, non ha dubbi sulla parte da scegliere, e non sente alcuna necessità di motivarla. Era ancora il tempo in cui essere povero significava inevitabilmente stare a sinistra e in cui i bisogni dicevano molto di più delle ideologie. Certo, alcuni problemi su cui si sofferma il romanzo sembrano oggi superati e, soprattutto, il tono con cui li presenta Strati sembra appartenere ad un’altra epoca, ma poi, quando si richiude il libro e si guarda la copertina con un poco di distacco, ci si accorge che le cose sono più complesse, e che quei problemi e quei toni non sono affatto superati: sono stati, più semplicemente, accantonati, dimenticati, traditi.
I mali profondi del Sud sono ancora gli stessi. Nella Catanzaro di oggi, come nella Catanzaro degli anni ’60, si continua a dover fare i conti con la propensione all’individualismo, con la ricerca delle scorciatoie, con la difficoltà di costruire un futuro davvero nuovo “Da quello che mi riesce di capire, penso che il vizio di base … abbia origine in noi stessi: dalla nostra boria, dalla nostra indifferenza, dalla nostra incapacità di creare delle organizzazioni collettive … di esprimere una classe dirigente nostra che sorga dal proletariato …”.
E del nostro sentire scorgiamo in Strati tracce continue: ritroviamo l’odio-amore verso il Sud, lo sdegno per la devastazione del territorio, la rabbia per i soldi spesi per alimentare il consenso elettorale e non per migliorare la vita della gente, il timore di combattere contro i mulini a vento e che in fondo tutto sia inutile. Ma anche, e soprattutto, sentiamo il richiamo struggente ai nostri doveri più elementari e, proprio come il giovane protagonista del romanzo, sappiamo bene che tocca a ciascuno di noi fare quanto è possibile perché venga una Calabria nuova, migliore di quella che ci è stata lasciata, finalmente giusta.
E così, accanto alla Catanzaro che non abbiamo mai visto e forse nemmeno mai immaginato, Strati ci ricorda che un’altra Catanzaro ed un’altra Calabria sono sempre possibili. Non facili, certo, ma comunque possibili. E se sono possibili allora dipende da noi, perché come dice il titolo del romanzo: E’ il nostro turno. Senza punto interrogativo.