di TIZIANA CALABRÒ - Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderòn, “sua maestà la zoppa”, nata e vissuta in un paese avvinghiato dal sole, un paese del sud del mondo “di anarchici di circostanza, enigmatici, streghe, illuminati, violenti truffatori”. Nata sotto il segno della rivolta, della rivoluzione Messicana del 1910, del fuoco che le ardeva dentro, dell’urgenza femmina e carnale di vita.
Lei, Frida Kahlo, l’artista, la pittrice, la donna, i cui quadri, disegni, fotografie che la ritraggono con i fiori tra i capelli intrecciati, sono esposti fino al 31 agosto all’interno delle stanze delle Scuderie del Quirinale. Nessuna pretesa di raccontare la sua vita. Le biografie poco dicono della verità profonda di un’esistenza, dei bisogni, dei desideri intimi, delle urgenze che si nascondono dietro azioni e gesti e parole. Ma si può provare a raccontare Frida cambiando prospettiva, partendo da noi, dalle emozioni potenti con cui questa donna ci travolge, come un liquido caldo e impetuoso, attraverso il racconto artistico del suo dolore e del suo attaccamento alla vita. Come un’amante passionale e folle di gelosia. Iniziando dal legame empatico, dalla tensione, dalla immaginazione, dalla sensualità che senti nel corpo, nel cuore e nella pancia. E vivi nel respiro quando vedi i suoi autoritratti. Perché la vita e l’arte di Frida sono corpo e carne.
Poche note biografiche. Nasce il 6 luglio 1907. Il suo paese è il Messico, il suo posto è il sud del mondo. A sei anni la poliomielite la rende zoppa. A 17 anni è su un autobus, un incidente. Un’asta metallica le trapassa il corpo, entra nell’addome, esce dall’utero. Pensano che morirà. Lei non muore. Soffre, piange, si dispera, la spina dorsale non la sostiene, le sarà per sempre nemica. Ma non muore. Torna a casa, il corpo disteso, la nuca sul cuscino. Si strugge d’amore per il ragazzo fuggito dal delirio che a volte è la vita. Le piazzano uno specchio sopra il letto a baldacchino, si guarda. Vede solo quello. Lei, il suo corpo, il suo volto, le lacrime, gli occhi pece, i seni freschi, le mani, i capelli lunghi neri, la bocca polposa. Le danno colori e tele bianche. Lei, Frida, inizia a dipingere. Dipinge l’unica cosa che osserva da quella zattera alla deriva. Se stessa. Il corpo, il suo, la presenza ingombrante e magnifica della sua vita. Poi continua a farlo, anche quando dal letto si alza per il resto dei suoi 47 anni. Anche quando i busti la costringono. Dipinge. Dipinge la terra del sud che ama. Dipinge gli amori, dipinge i suoi pensieri, il suo popolo, la maternità offesa dal corpo inadeguato. Il corpo presente, addolorato, segnato, pulsante come la terra. Il corpo che raccoglie le ferite, “tutte le ferite”. Dipinge e ricompone i pezzi. Dipinge il suo volto. E noi ora qui a guardarlo ad assorbirne la forza, il dono di sé, la vita, l’amore, il desiderio, l’erotismo appena svelato. Lei che riconosceva di essere stata “follemente amata” e di avere amato “incessantemente". Nell’amore, nell’amicizia. Uomini, donne a cui sentiva dover affidare il suo corpo martire sempre ornato di colori, di bellezza, di vita.
Mi sono fermata anche io a lungo dentro gli occhi di Frida la zoppa, alle Scuderie del Quirinale. Anche io zoppa, come tutti, da qualche parte. Lei ha offerto la sua vulnerabilità, l’ha esibita, “una disinvoltura, quasi un lusso”. Uno sguardo che ti denuda, ti spiazza. Esci da lì frastornata, silenziosa. Non capisci. Ti sale da dentro e si espande calda, una gran voglia di amare ed essere amata.