di ANTONIO CALABRÒ - L’informazione in Calabria è il riflesso della situazione intera. Vincolata ai parametri della civiltà interna di una regione proiettata nel futuro senza avere un passato definito. Come uno studente iscritto direttamente all’Università senza passare dalle scuole dell’obbligo. Si armeggia con gli strumenti tecnologici d’avanguardia, e non si sanno sfogliare le pagine dei libri. Si progettano sbalorditive innovazioni in ogni settore, dall’energia all’agricoltura, e la terra marcisce nell’abbandono e nell’accumulo di sperperi industriali inutilizzati. Si costruisce la pista ciclabile e si chiude il campo d’atletica. Pista ciclabile che è già degradata e segue un percorso astruso. Tutto si riflette in tutto. Non si può sfuggire.
L’informazione in Calabria, con le debite eccezioni, può essere solo parziale. Parziale come il nostro grado di civiltà. Non è neanche colpa degli addetti ai lavori. Deve essere così. Per forza. Per una questione di forza e di forze, siano esse politiche, economiche o militari. Le notizie in Calabria hanno un filtro naturale. Seguono il flusso quasi mistico del potere. Giornali e giornalisti si allineano seguendo concetti Darwiniani. La sopravvivenza di chi si adatta meglio. Adattarsi o scomparire.
Il superamento pieno della sindrome di Stoccolma. Sindrome Calabrese, piena, dimostrabile, diagnosticata, rivelata in tutta la sua decadenza. Sindrome dell’innamoramento per l’aguzzino. Ostaggi di un modus vivendi, e talmente impossibilitati a liberarsi da trovare virtù dove virtù non ci sono. Talmente prigionieri da proclamare sante le catene. Così accecati dalla mancanza di luce da indossare occhiali da sole per mentire al mondo intero. Orgogliosi dei nostri vincoli. Siamo così, e ne siamo fieri. Chi non accetta, è un masochista. Vuole farsi del male. Chi critica, è un nemico. Chi denuncia, un invidioso.
L’informazione in Calabria è quella che fa i titoloni che glorificano il vuoto. La cultura in Calabria è quella del piagnisteo secolare e della terra abbandonata e tradita e dei nostri emigranti e del tozzo di pane e di come era bella la cultura pastorale e l’odore del letame delle bestie rinsecchite. E delle diete a base di fichi e olive e formaggio e di come era bella la piazzetta del paese, con quel saggio capobastone, così imparziale nell’amministrare la giustizia, e del barone e del monsignore e signori e cafoni tanto onesti.
E poi questa Italia non voluta, che ci ha depredato di quella ricchezza bucolica, colpa di certi borghesi romantici illuminati dalle poesie, troppa poesia fa male, noi calabresi siamo concreti ,uomini veri, devoti alla giustizia e alla grazia, altro che Stato, la famiglia prima di tutto, e l’onore poi.
L’informazione in Calabria è figlia educata e composta di un sistema di potere che è un groviglio inestricabile, non si può pretendere troppo, così come non si può pretendere troppo dalla politica, così come non si possono distogliere gli intellettuali dai loro gravosi compiti di analisi dei testi di Campanella, così come non si può convincere il cittadino a rileggere i gesti quotidiani impestati di anarchia animale.
Il futuro è sempre dietro la porta. Il clima ci favorisce. Impiantare intere piantagioni di palme da dattero. Irrigarle, e trarne il prezioso frutto . Al suono di tamburelli e organetti, inscatolarli e portarli in giro per il mondo. Il reddito pro capite se ne gioverà. L’aumento del prodotto interno lordo. Una nuova via per il rilancio economico. Sterminate piantagioni di datteri e noi calabresi venditori del prezioso frutto. Conosciuti e rinomati in tutto il mondo.
Persino nei paesi di lingua araba, esporteremo i datteri. E ci chiameranno Tammar, (italiano: tamarri), che indica appunto questa professione. Così ci vogliono, e così è. E se nessuno lo dice, lo dico io, che nessuno sono. Tammar, il futuro luminoso della Calabria.