di MIMMO GANGEMI* - Anno Domini 1582. Messina è là, al breve orizzonte. Fa parte del paesaggio. Appare un tutt’uno con le coste di qua, non si distingue dove si consuma il continente, né l’acqua tormentata da Scilla e Cariddi. La punta s’allarga in due direzioni mostrando il riverbero di un’acqua di lago imprigionata tra due sponde. Più giù, sbiadito dalla lontananza, l’Etna si arrampica nel cielo sbuffando una scia serpeggiante che sfuma in lenta dissolvenza e va a irrobustire le nuvole. Di fronte, le isole Eolie si ergono in isolata superbia.
Messina piange, piegata dalla peste. Un caldo vento di scirocco ne raccoglie i gemiti e se li trascina dietro. Li cala su Palmi assieme alla sottile sabbia che ha strappato al deserto.
E Palmi accorre in soccorso del dirimpettaio a cui stenta la vita. Barche cavalcano le lunghe dune su cui si trascina il mare, sbattono di prua schiumando due sbuffi uguali, puntano quel lembo di terra che si allarga man mano alla vista mentre, poco più su, il sole sprofonda piano dentro il mare tracciando una striscia dorata che muore sul bianco dell’onda.
In segno di riconoscenza i Messinesi donano alla città di Palmi un reliquario contenente un capello di Maria di Nazareth. Preso da quella ciocca che avrebbero ricevuto dalle sue stesse mani, quando nell’anno 42 un’ambasceria si recò a Gerusalemme per darLe conforto, a ciò indotta dalla pietà suscitata dai racconti di mercanti navigatori sulla vita e la morte di Gesù. Maria, grata, avrebbe affidato anche una lettera di benedizione per la città.
Leggenda, naturalmente. A cui tuttavia storici postumi diedero con i loro scritti un vago chiarore di verità. Da qui, in Messina, la venerazione della Madonna della Lettera.
I Palmesi ripartono dunque dalla città dello Stretto con il prezioso dono. Ancora il vento trascina la notizia e il rientro diventa trionfale: un corteo di barche fende il mare puntando nude scogliere che l’onda schiaffeggia e costoni che s’inerpicano direttamente dalle acque, in un disordine di erbe, arbusti, ginestre, fichi d’india, agavi, alberi che risale il colle fino a placarsi in vetta su un pianoro a balcone sul mare e da cui si affacciano castagni con un ammasso di rami nudi a pungere il cielo, maestosi pini dal largo ombrello e querce da sughero.
Approdano alla Marinella. Ad attenderli, un popolo in festa. Così, tra storia e leggenda, è iniziata la tradizione della varia a Palmi.
La festa celebra l’Assunzione in cielo della Vergine e ha il suo culmine l’ultima domenica d’agosto. Prima con la processione del Sacro Capello, quando il reliquario viene portato per le vie della città assieme al quadro della Madonna della Lettera, in una manta d’argento e nera come lo è quella di Messina e come lo sono tutte le Madonne di tradizione bizantina. E dopo con la scasata della varia, l’imponente macchina scenica strisciata a forza di braccia lungo il Corso dai ‘mbuttaturi, una struttura in legno e ferro, alta quindici metri e poggiante sul cippo, il robusto basamento con sopra la bara della Vergine – e varia appunto bara significa – contornata dagli Apostoli e da una schiera di angioletti ruotanti sul bordo.
La sagoma un involucro di cartapesta bianca, di un’irregolare forma conica, da cui sporgono cherubini, serafini e troni vestiti di bianco, il sole e la luna con raggi che sostengono altri angeli, più in alto la terra in rotazione su se stessa, più in alto ancora l’asta che sorregge il Padreterno e, in cima, l’instabile sostegno dove si colloca l’animella - la ragazzina che impersona la Vergine - la più bella, scelta dal popolo tra le famiglie del popolo.
Dal cippo si partono cinque travi in legno. Facendo leva su esse, i ‘mbuttaturi delle diverse corporazioni – contadini, marinai, beccai, artigiani e carrettieri – trascinano la varia a forza di braccia. Sono in abiti bianchi e portano alla vita fasce con colori che identificano la categoria rappresentata.
Ha quasi cinque secoli la tradizione.
Mantenuta e rinvigorita dalle corporazioni. I beccai mettevano da parte le corna delle bestie macellate, per venderle a chi ne faceva pettini, manici di rasoi, bottoni. Il ricavato serviva per la festa. Difficile la raccolta. Carne ne masticavano in pochi fino a prima della guerra. Tanto che la gotta, malattia di chi ne abusa, era, per quanto doloroso, un segno di distinzione sociale. I barbieri sacrificavano alla devozione della Vergine il ricavato della vendita dei capelli ramazzati a sera. E le famiglie proprietarie di uliveti contribuivano con olio di oliva.
Anni andati. Usi che si sono persi con la modernità. Carrettieri non ce ne sono più, pochi ormai gli artigiani. Restano i beccai, oggi macellai, e contadini e marinai, dato che terra e mare sono sempre là. E resta la tradizione. Ha saputo resistere all’usura del tempo ed è più viva che mai. Perché appartiene al popolo, ne incarna lo spirito, è il segno del passato, è la traccia della storia.
La grande attesa è tutta per la scasata.
Vi occorrono le braccia di duecento ‘mbuttaturi. Strisciano la varia sul selciato del Corso alle note di una marcetta del maestro Jonata. Ed essa scivola veloce, accelera per superare in agilità il dislivello, fino alla Balconata. Lì, il fermo per l’inversione e la nuova spinta per ricondurla in piazza e fermarla al centro delle quattro strade. In cima, l’animella, su un instabile sgabello girevole. Madonna, benedice da lassù, alta sopra i tetti della case, sballottata dalla corsa, con la veste azzurra che si confonde con le tinte del cielo. Poco sotto, il Padreterno, pronto a esserle di supporto. Lungo la superficie di cartapesta, bambini vestiti da angeli, e non più gli orfanelli che per secoli hanno girato in tondo fissati a delle ruote.
Un’immensa folla si stipa lungo i marciapiedi del Corso e sulla piazza, si accalca sui balconi.
Accorreranno da ogni dove per assistere a un evento che ha ormai catturato la scena nazionale. Si offrirà, una volta tanto, questa città ai turisti. E si farà ammirare. È ricca di storia e di tradizioni. Ha dato i natali a cittadini illustri. E Dio deve averla forgiata in un giorno di buona, mettendoci passione. Perché le ha dato bellezze incomparabili, tra un mare dalle tinte viola solcato dalle spadare e il Sant’Elia che la sovrasta calandole d’inverno i suoi lenti fumi umidi mentre domina lo Stretto offrendo un paesaggio senza uguali.
Benedetta da Dio, questa città. Ma mortificata dall’uomo. Si è imbruttita, nel disordine delle periferie, nelle vie del centro offese dai casermoni del cemento armato. Non richiama i vacanzieri che pur merita. Annaspa mentre il mondo intorno progredisce e si rigenera. E diventa amaro il ricordo del tempo in cui si ergeva dignitosa e altera. Era il finire degli anni ’60 quando dai paesi dell’interno vi arrivavamo per i nostri studi liceali. La guardavamo ammirati, ci metteva soggezione, ci faceva timidi. Tanto da sentire il bisogno, prima di entrarvi, di sistemarci meglio, dandoci un’aggiustata con il pettine ai capelli, togliendo via la forfora, spolverandoci gli abiti.
La varia, l’antico da cui ripartire per costruire un futuro migliore.
*Questo articolo già pubblicato su CalabriaNews in occasione della Varia del 2006 viene viene qui riproposto con consenso esplicito del suo autore.