di LUCIANO TRIBISONDA -
Vi è nella mentalità reggina un qualcosa di particolare, sfuggente, impalpabile, un qualcosa che si potrebbe sintetizzare con la frase: "nessuno è meggliu i mia e tu a mia non mi futti".
L'animo reggino è facilmente soggetto all'assuefazione, al rimpianto, al lamento, ed è talmente soggetto alla dimenticanza, da cancellare in un sol colpo, dalla sua flebile memoria, il volto dei propri boia.
Tanti sono stati gli assassini della mia terra, tante le anime corrotte e tanti i figli andati via.
Tanti sono stati i cuori rotti dal rimpianto e tante le lacrime dettate dalla nostalgia.
Vi è una inconsapevolezza malsana nel cuore del reggino, un orgoglio al contrario che blocca ogni passo verso la meta o verso un destino possibile o auspicabile.
Abbiamo dimenticato da dove veniamo e abbiamo dimenticato chi ci ha cresciuto, figli impenitenti abbiamo lasciato le nostre case senza guardare quello che avevamo intorno.
Ci crogioliamo della vista dello Stretto e della bellezza del mare senza preservarne la sua fragilità, gettiamo come cicale affamate di disordine chili di carte a terra per poi lamentarci della lontananza degli appositi cestini.
Abbiamo avuto il coraggio, bambini creduloni e maldestri, nel credere al canto dell'Estate, nel credere che i lidi e le spiagge, inni di sirene stonate, potessero essere un balsamo per i dolori dell'Inverno e, mentre i giorni passavano, ci siamo resi conto che quelle gabbie in riva al mare altro non erano che uno stordimento momentaneo, un anestetico per l'anima.
Ci hanno convinto che il cambiamento sarebbe arrivato dall'esterno, onda implacabile e inarrestabile che tutto avrebbe modificato persino nella percezione delle cose.
Poveri illusi noi reggini, ovattati dagli eventi non ci siamo resi conto che il cambiamento, quello vero, indimenticabile come i ricordi piacevoli e dolci dell'infanzia, sarebbe dovuto derivare dall'interno, da quel pozzo senza fondo che i preti chiamano anima o qualche psicologo definisce il "sè".
La verità, amici cari, è che non abbiamo capito niente.
Abbiamo trasformato Reggio in una sorridente puttana, odiosa al nostro occhio ma dolce a quello dello straniero.
Abbiamo imbrattato la pelle dell'antica Reghion con il nostro fare distratto, drogandoci dei nostri sogni di gloria siamo andati indietro mentre il mondo ci superava.
Abbiamo preso a calci la povera Reghion e l'abbiamo derisa, mentre imbrattavamo festanti le scale della Cattedrale o mentre parcheggiavamo nel posto dei disabili a causa dell'urgente aperitivo.
Abbiamo sputato in faccia alla povera Reghion mentre lontani, finalmente liberi da ogni catenaccio, abbiamo sparlato dei nostri luoghi natii, caldo cuscino delle tanta agognate ferie.
Abbiamo mortificato la povera Reghion quando le abbiamo urlato che in lei "non cambia niente", "che tutto resta uguale", che per lei "non c'è speranza" ed infine, sprezzanti di orgoglio, abbiamo dimenticato finanche il suo nome gettando tra i terreni dei nostri ricordi i granelli salati della rassegnazione.
Mai contenti poi gridiamo al cielo la nostra maledizione e ci lamentiamo della pioggia perché non abbiamo avuto gli occhi per vedere le meravigliose giornate di sole.
Non ho niente più da dirti mio caro reggino, niente che possa suscitare il tuo sdegno o smuovere il tuo orgoglio malfermo...anzi, aspetta, quando domani camminerai nel piu bel lungomare del mondo, tra le palme lucenti e i versi di Ibico, osserva quello che ti circonda e pensa che tutto cio che vedi, in realtá, non è di tua proprietà, ma ti appartiene , perchè appartenere significa condividere e condividere significa preservare.
Buona fortuna mio caro reggino... restiamo umani... o almeno proviamoci