di GIUSEPPE TRIPODI
- Fìgghiu-a, figlio-a, ma anche figghiòlu – a, bambino, ragazzo, e pitacuni, dal greco pais-paidos, greco di Calabria pedì + (c)-uni (suffisso benevolo come mulu- mula(cchi)+uni, Latru- Latra+(cchi)+uni) applicato metaforicamente ai piccoli implumi degli uccelli che poi, nel tempo, ha finito per indicare in modo quasi esclusivo.
Altra parola molto diffusa nella Zona Jonica medio alta della Calabriaè cotràru, ragazzo, bambino. Per Pasquale Tuscano (Letteratura delle regioni d’Italia: La Calabria, Brescia, La Scuola, 1987, p. 217) deriva dal latino quaternarius (bambino di quattro anni) ma nella lingua corrente è spesso riferito a persone che hanno superato quell’età. Si potrebbe ipotizzare una origine dal grecanico dichàtera (figlia) che, con l’aferesi della sillaba iniziale, avrebbe dato luogo a cathèra > cotràra; tanto più che cotràru è sinonimo di figghiòlu.
L’espressione Ohè cotràri! assomiglia al romanesco Ah rigà! E ci torna in mente il testo di una villanella cantata che, tra nonsense e allusioni un po’ velate, recitava: Tiritùppiti cori biddìcchia/ to mamma non c’è e facìmu lintìcchia/ to mamma è ddoc’a fora/ ballàmu nu dui bedda figghiòla/ to mamma è a la chiumàra/ ballàmu nu dui bedda cotràra (Tiritùppiti, cuoricino bello/ tua mamma non c’è e possiamo cuocere le lenticchie/ tua mamma è lì fuori/ balliamo noi due bella figliola/ tua mamma è andata a fare il bucato/ balliamo noi due bella ragazza!).
Da cotràru deriva cotrarànza, che, come l’analogo figghiolànza, indica il ‘paradiso perduto’ dell’adolescenza, da non confondersi con la gioventù, assieme alla quale rappresenta un periodo felice e magico anche se irto di pericoli: La figghiolànza e la gioventù su forti a passari (l’adolescenza e la gioventù passano con difficoltà).
Ecco alcuni versi di Salvatore Filocamo dedicati proprio ai Ricordi d’a cotraranza: “Chi bella vita chi facìvamu tandu / ndi ndi jèmu girandu / jornati sani senteri senteri / acchiappàndu cicali / e ‘nchiaccàndu zefràti / cogghjèndu amùra nigri ‘nt’e sipàli. / Nd’aricogghièmu a casa spellizzàti, / lordi, e per supacchiùni / cu carzi e giacca senza nu buttùni; / nd’i jocàvamu a nzinga ed a petrùlla. /E quanti jorna, mbeci mi jamu a scola, / tutti i margi d’a sulla / ‘i jèmu miscitàndu pe cannòla” (Ricchi e povari, con prefazione di Saverio Strati, Locri, Pancallo, 2006, p.29).
Sui figli nella Calabriia contadina si incrociavano svariate serie paremiologiche
Affetto
A li figghi si voli beni d’intra o cori e si bascianu nt’o sonnu / l’amore per i figli deve essere discreto per evitare di incoraggiarne il narcisismo. Da qui l’esigenza di baciarli nel sonno e, durante la veglia, di non destinar loro sovrabbondanti perché li tanti carìzzi càcanu la casa.
Pedagogia
La liàmi si torci quando è virdi, si no si rumpi; la liàmi era una corda rustica fatta con i fili dell’ampelodesmo o di un’altra pianta chiamata Zinnàchu: naturalmente perché la torcitura riuscisse era necessario che il materiale fosse verde altrimenti si sarebbe rotto; l’applicazione del principio in pedagogia prescriveva dunque che i bambini, come i fili della liàmi, fossero oggetto di prescrizioni formative sin dalla primissima infanzia, altrimenti gli insegnamenti sarebbero risultati poco efficaci.
Il metodo, ovviamente, non era quello della Montessori: Botti e panelli fannu li figghiòli belli; erano sufficienti il pane (panelli) per l’alimentazione e una buona dose di botte quando ce n’era necessità.
Ambivalente
l’intreccio tra fattori ereditari e fattori educativi: se da un lato si concedeva che l’insegnamento fosse efficace sia per i bambini che per gli animali (Porcèddhi e figghiòli comu li mpari li trovi) dall’altro si affacciavano i fantasmi dell’ereditarietà e immutabilità del carattere: Vitu vitòlu, com’è la mamma veni lu figghiòlu; Figghia di gatta sùrici pigghia / e si non pigghia non è so figghia; Cu nasci tundu no mori quatru
Sangue
Megghiu ricchi di sangu chi di dinari; detto poco compatibile con la crisi demografica che attraversa l’Italia del III millennio nella quale il fare o meno figli dipende proprio dai denari che uno ha. Insomma una volta si facevano figli perché era l’unica ricchezza che si poteva incrementare con pochi o punto denari, oggi non si fanno figli perché non c’è la disponibilità di beni economici e strumentali che li possano far crescere in modo adeguato.
Figghi fici e figghi disìu, figli ho fatto e figli desidero; espressione sfuggita di bocca a persone anziane che, proprio quando hanno avuto bisogno di sostegno contro i loro malesseri senili, non si ritrovano i figli perché sono emigrati o perché altrimenti lontani da casa o, infine, per casi di premorienza.
Cu non avi figghi e non avi pitigghji; pitigghji sono i cavilli, i sotterfugi. Chi non ha i figli non è costretto a trovare cavilli e sotterfugi per farli crescere.
Mara ddha casa d’undi nesci na chìrica rasa / mbiata ddha porta d’undi nesci na fìmmina schette morta! Il detto mette in relazione i figli diventati preti (le Chiriche rase) che portavano ricchezza in casa anche per gli altri componenti della famiglia e le figlie femmine nubili (schette) che lavorano in casa aiutando la mamma nella gestione della vita e dei lavori famigliari. Nonostante l’apparente contrapposizione dei sintagmi che introducono le due parti del proverbio (mara ddha casa, povera quella casa da cui un figlio prete se ne va; mbiata ddha porta da cui esce morta una femmina non sposata) il succo è identico: la famìgghia prima di tutto.
Màsculi e fìmmini
Il figlio maschio, vuoi per il fatto che ancora tramanda il cognome vuoi per l’orgoglio mascolino (quando non anche per considerazioni di carattere ‘militare’) finiva per essere atteso con particolare ansia nella Calabria della nostra giovinezza; e allora non c’erano ecografie che svelassero in anticipo il sesso del nascituro.
La delusione per l’arrivo della femmina veniva mascherato con un proverbio ad hoc, a la casa di li galantomini prima li fimmini e dopu l’omini, che alludeva all’uso cavalleresco di dare la precedenza alle donne. Alla secondo fallimento ci si consolava con il detto basta mi sunnu di bona saluti e ai successivi, i tentativi venivano comprensibilmente ripetuti in attesa del masculeddu, si inventavano stravaganti strategie propiziatorie.
Al Paese Vecchio di Mèlito era famoso il caso di un padre che, deluso da madre natura, sterminava i maschi figliati dalla gatta sostenendo che in casa, a quel punto, di maschio ci doveva essere solo lui.
Le mamme, incolpevoli e pur colpevolizzate delle nascite femminine, cercavano di convincere i padri che i figghi màsculi non ti mèntinu a curuna.
Chiudiamo con un proverbio che mette in mostra la poca affidabilità dei figghiòli, anche di quelli che avevano superato la fase dei pannolini (che allora si chiamavano pannìzzi)
Cu si curca cu figghiòli la matìna si leva cacatu.