di GIUSEPPE TRIPODI
- Urru (come anche la variante eufonica gurru), censito dal Rohlfs con accanto la laconica e riduttiva traduzione di voglia, in realtà indicava, ed indica ancora per chi lo usa, la particolare condizione degli adolescenti e dei giovani i quali si trovano, beati loro, con l’universo mentale interamente dominato dalla dimensione erotico-sessuale; onde il loro parlare, muoversi e relazionarsi all’altro viene mediato da continue esibizioni ed allusioni alla propria ed all’altrui sfera erotica.
La comunità contadina, in genere compiacente verso l’urru giovanile, si incattiviva quando il gurriàri si manifestava in chi adolescente più non era e fustigava i malcapitati che gurriàvano fuori quota.
Per l’etimo, stante il significato inequivoco, si potrebbe ipotizzare l’origine dal greco Eros, “il più bello fra gli dei immortali,/ che rompe le membra, e di tutti gli dei e di tutti gli uomini/ doma nel petto il cuore ed il saggio consiglio” (Esiodo, Teogonia, ww. 120-122, in Opere, Torino, Einaudi 1998).
Il gurru coincideva dunque con l’irrequietezza amorosa, una sorta di malessere che non dava tregua, anzi Bentu, (dal latino abire, sup. ab-itum, guarire, cessare).
Bentu, caduta per aferesi la vocale iniziale della parola latina, ha dato luogo al verbo bentàri, avere tregua. Fammi bentàri! si dice ad un ragazzino, o anche ad una persona adulta, che ci assilla con richieste insistenti.
E, con riferimento al mal d’amore, ritroviamo la parola in un riferimento, rimato e melodico, alla vita monastica: Lu mònacu di casàli/ senza mugghièri non poti stari/ lu mònacu di cunvèntu/ senza mugghièri non pìgghia bentu (Il monaco che sta in luoghi assolati/ non può stare senza moglie/ il monaco di convento/ senza moglie non prende requie).
La parola è antica e la ritroviamo, senza l’aferesi e al fiorire della Scuola Poetica Siciliana, nelle primissime battute del celebre contrasto di Cielo d’Alcamo in cui il corteggiatore intraprendente dice all’amata: “ traggemi d’este focora, se t’este bolontate/ per te non ajo abento notte e dia/ pensando pur di voi madonna mia”.
Scartata, per comprensibili ragioni, la possibilità che il gurru sfociasse negli atti sessuali (prerogativa riservata in modo quasi esclusivo ai soggetti congiunti in matrimonio) rimanevano canalizzazioni alternative della pulsione amorosa verso le quali la società si manifestava più tollerante: ad esempio “ pizzichi e basci” erano ‘depenalizzati’ in quanto ‘non fannu purtusi!”, cioè non fanno perdere la verginità.
Depenalizzato erano anche le catugghiatìne e anche il catugghiàri, dal francese chatouiller, solleticare per far ridere, provocare (da cui anche chatouilleuse, accompagnatrice amorosa).
In una poesia popolare si raccontava della pulce che, introdottasi nel letto dei fidanzati, pizzica loro i lati delle mammelle e teme soltanto il fuoco perché il resto la catùgghia soltanto: “cu dici chi lu pùlici è curnùtu/ lu pùlici è lu primu nnamuràtu/ si curca nta lu lettu di li ziti/ nci pìzzica li minni a latu a latu/ e si lu strìcanu si catùgghia/ si lu jèttanu a lu focu faci puh!/ squètati mundu chi non ndi vidìmu cchiù”(chi dice che la pulce è cornuta/ la pulce è la prima innamorata/ si corica nel letto dei fidanzati/ e pizzica loro i dintorni delle mammelle/ e se lo strofinano si solletica soltanto/ ma se lo gettano al fuoco fa puh!/ rassegnati mondo che non ci vedremo più).
Se il gurriàri ha buon esito i gurriànti raggiungono il ricrìu, ristoro, cosa che fa rinascere, ricriàri appunto. L’Eros dunque mira al ricrìu, anzi un ricriacòri (rinascita del cuore).
Il termine è presente anche nel volgare medievale di Franco Sacchetti: Tu Santa Madre del benigno Iddio/ del creator di tutte le creature,/ che l’universo muove al suo disio,/ e da pienezza nelle cose oscure,/ Tu Vergine pietosa , il cui ricrìo/ è sol conforto alle mondane cure,/ tanto mi presta del tuo lume santo/ ch'io possa seguitar mio vago canto (La Battaglia delle belle donne, Lettere, Le sposizioni dei vangeli, Bari, Laterza, 1938, p. 3).
Ricriàri è anche una copia del latino reficiere che, nella Vulgata dei Vangeli, è impiegato nel passo (Matteo, 11:28) dell’invito (Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos/ Venite a me o voi che siete affaticati ed oppressi, io vi ristorerò!”) ricrìu, ristoro, cosa che fa rinascere, ricriàri appunto. Anche l’amore è un ricrìu, anzi un ricriacòri (rinascita del cuore). Il termine è presente anche nel volgare medievale di Franco Sacchetti: Tu Santa Madre del benigno Iddio/ del creator di tutte le creature,/ che l’universo muove al suo disio,/ e da pienezza nelle cose oscure,/ Tu Vergine pietosa , il cui ricrio/ è sol conforto alle mondane cure,/ tanto mi presta del tuo lume santo/ ch'io possa seguitar mio vago canto (La Battaglia delle belle donne, Lettere, Le sposizioni dei vangeli, Bari, Laterza, 1938, p. 3). Ricriàri è anche una copia del latino reficiere che, nella Vulgata dei Vangeli, è impiegato nel famoso passo dell’invito (Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos/ Venite a me o voi che siete affaticati ed oppressi, io vi ristorerò!”) (Matteo, 11:28) lungamente chiosato da S. Kierkegaard in Scuola di cristianesimo.