di GIUSEPPE TRIPODI
- Suddha, sulla (hedysarum coronarium), dal latino sylla, pianta erbacea foraggiera con foglie imparipennate e fiori rossi o bianchi. Il frutto è leguminoso e contiene numerosi semi bruni e rotondi.
Può crescere per diffusione spontanea spandendosi sulla superficie del terreno ma, se seminata fittamente, si sviluppa in altezza fino ad un metro e più; in quest’ultimo caso lo stelo può raggiungere il diametro di un paio di centimetri e, sbucciato fresco, può essere mangiato anche dagli uomini perché è dolce e molto acquoso (cannòlu).
La pianta, destinata per lo più alla fienagione, era coltivata in tutto il versante ionico della provincia di Reggio Calabria che perciò veniva detta regione della sulla (G. Cingari, Reggio Calabria, Bari, Laterza, 1988, p.4) meglio determinata da Carlo Maranelli [La distribuzione della popolazione nel gruppo dell’Aspromonte agli inizi del Novecento, in Pino Arlacchi ( a cura di), Territorio e società : Calabria 1750-1950, Cosenza 1978, pp. 115-127, ma lo scritto faceva parte di Considerazioni geografiche sulla questione meridionale, Bari, 1946].
Era diffusa nei terreni argillosi “in rotazione col grano per cinque anni e nel sesto il terreno è lasciato a prato naturale: né le mandrie di ovini, né altre si fan mai pascolare nei terreni coltivati a sulla; si fanno invece riposare per una o più notti per concimare il terreno. La sulla raccolta come fieno in questi poderi serve per gli animali in stalla”(ib., p. 118).
Sulla circostanza che non venisse data direttamente in pascolo alle bestie testimonia il detto, diffuso in forma dimezzata anche in italiano, campa cavàddu chi l’erba crisi, e veni màggiu e ti mangi la sudda! (campa cavallo che l’erba cresce e viene maggio e ti mangi la sulla!). In realtà la sulla già a marzo o aprile era già diventata fieno e ciò accentuava la vanità della promessa di scorpacciate maggesche per la povera bestia affamata.
Il taglio per la fienagione veniva fatto con la falce piccola (facigghiùni) o con l’arpa, dal greco hárpē,ēs, falce fienaia dalla lama ricurva, innestata nel manico ad angolo di circa 90 gradi. Le impugnature era situate all’estremo opposto alla lama e a metà del manico (nell’iconografia medievale si ritrova spesso in mano alla morte). L’etimologia è sicuramente greco-classica e la parola si trova in Esiodo (Erga 571) che dà indicazioni sul periodo giusto per usarla: Ma quando la lumaca dalla terra si arrampica sugli alberi, fuggendo le Pleiadi, non è più tempo di sarchiare le viti ma affila le falci ed esorta gli schiavi. Dal greco deriva anche il nome dello strumento musicale, forse per la rassomiglianza che lo zoccolo e la colonna di questo hanno con la lama e il manico della falce.
Una volta tagliata la sulla veniva lasciata a seccarsi per qualche settimana onde evitare che si muffisse; poi veniva trasformata in fieno (frenu) sia con il lavoro dei membri della famiglia che con quello della parentela o del vicinato.
Nelle primissime ore del mattino, quando la rugiada (sirìnu) aveva reso più soffice e resistente alla piegatura gli steli della pianta ormai secca, avveniva la torcitùra del fieno; il lavoro si svolgeva a coppia: la donna, mediante una canna lunga poco meno di un metro (cannòlu), torceva e l’uomo filava, attingendo la materia da filari formati anticipatamente con rastrelli o tridenti. Quando il filo, del diametro di circa trenta centimetri, raggiungeva i sette metri di lunghezza veniva ammatassato sulla dimensione di un terzo ottenendo una manna (dal latino manua, manata) di circa due metri.
Le manne venivano poi lasciate ad asciugare, raccolte in filari di 24, ancora per qualche settimana e, infine, accatastate in bardelli (mbardeddhàti) a tronco di piramide su cui venivano posti dei massi per evitare che il vento li disfacesse.
Ogni bardello veniva anche detto càrricu (la voce indicava altresì una unità di misura nelle compravendite) perché era l’equivalente di quanto potesse trasportare un asino. Per il trasporto le ventiquattro manne del carico venivano divise in due mazzi di otto manne ciascuno che erano assicurati al basto dell’asino con una corda di circa dieci metri (paricchiàla). Le otto manne che rimanevano venivano poste sulla sommità del carico (supracàrricu).
Le tecniche di carico dovevano considerare il percorso (se era in salita il carico doveva essere impostato sul davanti della soma e se era in discesa occorreva fare il contrario) ed anche il bilanciamento tra i due mazzi laterali (ad esempio se uno di essi risultava più pesante occorreva disporre le manne di sovraccarico dall’altra parte, o in maggioranza dall’altra parte).
Il fieno così immagazzinato veniva poi offerto al bestiame, specie nei periodo di lavoro intenso, disfacendo le manne (smannàri).
Una manna del fieno stesa per terra poteva essere assimilata, sia per la lunghezza che per lo spessore, ad un uomo morto.
Mi sovviene di un mio parente (in gioventù aveva ucciso in un duello rusticano due persone, una delle quali - Maru Maddà, povero Falcomatà - era un gigante di cui si diceva, a conferma della sua forza animalesca, che avesse addirittura la coda) che, ormai vecchio, aveva avuto una discussione con persone che non lo conoscevano e cercavano di tastargli il polso; lui si era presentato ed aveva loro ringhiato in faccia: “Ohè! Vidìti chi vui non mi canuscìti, ma eu mi li fici nu paru di mannicèddi di frenu!” (Ohè! Vedete che voi non mi conoscete, ma io me le sono fatte un paio di piccole manne di fieno!).
La suddha, specialmente quella cresciuta più rada allungandosi ed allargandosi nel terreno, veniva raccolta e trebbiata per ricavarne i semi (suddha i simènza o anche simènza i suddha) che, in autunno, veniva sparsa sui terreni non seminati a grano o ad altri cereali.
I resti della trebbiatura della sulla (suddhàta) venivano anch’essi immagazzinati per l’alimentazione invernale del bestiame.
I resti della raccolta e del successivo pascolo estivo venivano sotterrati per fertilizzare il terreno (sovèscio).