LA PAROLA e LA STORIA. Coppa, Coppu, Ccuppari

LA PAROLA e LA STORIA. Coppa, Coppu, Ccuppari
coppa Coppa, è ciò che sta in alto, ‘ncopp come si dice a Napoli, probabilmente perché, diversamente dai bicchieri normali, sta ad una quota più alta dell’asse di appoggio.

Nelle osterie di Carrara, patria degli anarchici che notoriamente discutono molto e non a bassa voce, di coppe se ne vedono poche e i bicchieri hanno il fondo ‘antisismico’, di vetro grosso.

In Calabria coppa è anche la crosta che cresce sopra la ferita quando seccano il siero e il sangue; se uno ha pazienza la crosta scoppa da sola mentre se invece la si scortica prematuramente, come in genere fanno i bambini, la ferita si apre di nuovo;   quindi supra na caia na ferita nova come metaforicamente si dice di chi, con il suo comportamento, riapre pagine di vita dolorose e rimarginate malamente.

Nel Lazio la coppa di terra è una misura di circa mille metri quadrati per seminare la quale occorrono almeno dieci chilogrammi grano; nessun legame quindi col coppu che in Calabria è una misura per grano che ne contiene 1250 grammi circa.

Ccuppari, letteralmente ‘mettere sotto la coppa’, viene comunemente usato come sinonimo di ‘coprire’: a) faci comu la gatta, chi prima caca e poi la ccuppa (fa come la gatta che prima caca e poi la copre) si dice di chi prima compie una cattiva azione e poi cerca di coprirla, di non farla conoscere agli altri!; b) aviva santi in paradisu e ccupparu tuttu, si dice di uno che ha compiuto un delitto ma, grazie alle amicizie (cu sordi e cu micizia si va ‘n culu a la giustizia), è riuscito a farla franca; c) ndi ccuppau di corna! ( Ne ha coperto di corna!) si diceva di chi aveva sposato una donna dal passato non limpido; quindi le corna, prima bene appuntate sulla fronte della famiglia di origine, ora venivano ‘regolarizzate’ e ‘coperte’, ‘ccuppate’ appunto,   affrancate dal  matrimonio; d) stamatina lu celu è ccuppatu, …ccuppusu (il cielo è grigio, coperto; lu celu si ccuppau, non è com’era / era chiarìa e ddifentau muddhura ( il cielo si è coperto, non è come prima / era limpido ed è diventato cupo, minaccia di ammollarci); e) mi ccuppa lu cori ( mi sento il cuore coperto) indica la difficoltà a respirare perché qualcuno ci comprime il petto o perché ci troviamo in un luogo chiuso e ci manca l’aria.

Ma di compressioni sul petto o di mancamento di aria si poteva anche essere uccisi: da qui deve essere insorto il verbo dialettale veneto copar, uccidere forse con asfissia, imparentato col francese couper, tagliare, interrompere il flusso, e con copar, cat. e cast., tagliare, anche la ritirata all’esercito avversario; in portoghese  la parola riprende il significato di stare in alto: essere orgoglioso, insuperbirsi, imbizzarrirsi.

In Calabria ‘morire asfissiati sott’acqua’ si dice anche buttari, letteralmente ‘morire dentro la botte’, la cupa: mi pari buttatu (che tu possa morire sott’acqua) è una discreta maledizione. Il riflessivo, mangiau tantu chi si buttau, significa farsi la pancia come una botte dal troppo mangiare. 

Mbuttari, spingere, invece deriva da mbutu, l’imbuto, e deriva dal fatto che, versandoci dentro molta acqua, questa scende forzata, a mulinello: No mbuttari! Non spingere!      

Dal castigliano Copaparte hueca del sombrero, en que entra la cabeza, è derivata la còppula, piccola coppa, che oltre a non avere le falde, copre in maniera aderente la calotta cranica, senza spreco di ulteriori materiali.

Còppula è anche il prepuzio, in quanto copre dall’alto il glande; ricordiamo un muratore reggino della frazione San Salvatore che, richiesto da noi  cosa volesse dire la scritta “Siamo passati e passeremo” sull’arcata di un ponte della vecchia 106 jonica, sbottò in questi termini: “ A scriviru i fascisti! Volìvinu passari e ripassari, ora pàssanu ra còppula ru cazzu!”.   

Berritta, altro nome calabro della còppula, per Migliorini deriva dal prov. Berret, discendente a sua volta dal tardo latino Birrus, mantello, ovviamente della testa;  La berritta  poteva essere anche ‘longa’ 60 centimetri e scendere dietro la nuca ed era usata dagli anziani pastori nella Calabria meridionale: cacciarisi a birritta, scoprirsi il capo, poteva essere segno di deferenza ma anche di sottomissione, onde eu mi ndi ja ma nci cacciai a birritta a nuddhu ( io me ne sono andato ma non mi sono scappellato davanti a nessuno) era detto orgoglioso di tutti coloro che avevano preferito l’emigrazione e le connesse sofferenze pur di non sottomettersi o rinnovare atti di sottomissione.

Berritta si usa anche in sardo; il detto kentu concas e kentu birrittas (cento teste e cento berrette) legittima il pensiero individuale: ‘ogni testa ha la sua berretta’ vuol dire  che nessuno si può arrogare il diritto di pensare per un altro; nell’isola esiste anche Ciccìa, copricapo  di lana o di panno senza falde e senza visiera, papalina.     

Si dice che nei dialetti calabri ci sia una cesura coincidente con la strozzatura di Lamezia: a nord c’è la prevalenza del sostrato latino e a sud quella del sostrato greco.

Rohlfs ha rappresentato iconograficamente la situazione raccontando che nella vecchia Calabria citeriore, al nord dunque, prevaleva l’uso e la denominazione del cappello a punta e a falde larghe, u Cervuni, u cappellu pizzutu, mentre a sud prevaleva la ‘barritta longa’ o, anche, la còppula.  

Gioacchino Criaco ha accostato l’etrusco Kapys  (avvoltoio dai piedi curvi all’indentro, come ci ha insegnato Semerano) al capis, parola con cui in Calabria si indica il proiettile delle armi corte; l’ipotesi, oltre che per la fonetica, è suggestivo anche semanticamente: il proiettile è curvo come i piedi dell’avvoltoio. La strada probabile è però: dal latino capsa, contenitore,  >  capsula, piccola cassa, al capis calabro, letteralmente la cartuccia riveste l’ogiva contiene anche l’esplosivo e il detonatore.