di DAVIDE VARÌ - Graziano Delrio è finito nei guai: i grillini chiedono la sua testa di sottosegretario e l’Espresso sta sapientemente centellinando un verbale di interrogatorio del 2012 nel quale, l’allora sindaco di Reggio Emilia, era stato chiamato a giustificare una singolare e sospetta simpatia nei confronti della comunità calabrese. Insomma l’accusa è di intelligenza col nemico e il nemico, evidentemente, è il calabrese. Il che è come dire mafioso.
Ma andiamo con ordine. Tutto inizia con una gita, una “maledetta” gita che i candidati sindaci di Reggio Emilia organizzano a Cutro, una cittadina di mare del crotonese che ha dato i natali a tanti immigrati calabresi sbarcati in Emilia. Delrio, sindaco uscente e candidato, è della partita. La delegazione partecipa alla processione del Santissimo Crocifisso di Cutro e a un paio di cene con le autorità locali: c’è il sindaco, il prete e il maresciallo, proprio come in un romanzo di Sciascia. Tutto sembra finire lì: con un brindisi, qualche abbraccio e affettuose strette di mano. I convitati non sanno però che le antenne dell’antimafia sono sulle loro frequenze. Fatto sta che Delrio vince le elezioni e diventa sindaco, evidentemente anche grazie al voto dei calabresi residenti a Reggio Emilia. E a quel punto le antenne dei pm si drizzano.
Passano gli anni. Delrio amministra la città ma la procura di Bologna continua a indagare “sottotraccia”. E arriviamo al fatidico 2012. I pm escono allo scoperto e decidono di sentire Delrio come persona informata dei fatti. E i fatti riguardano una presunta infiltrazione ’ndranghetista negli affari della città emiliana. Agli inquirenti non è proprio andato giù quello “strano” viaggio in terra di Calabria. Ma non solo, gli efficienti magistrati vogliono sapere un’altra cosa: perché mai Delrio ha partecipato a un incontro col prefetto insieme a un consigliere comunale calabrese? Delrio cade dalle nuvole: qual è il problema se un sindaco va a trovare il prefetto della città che amministra?
«Sì, sono andato dal prefetto perché questo tema delle infiltrazioni 'ndranghetiste e della questione calabrese, diciamo così, assume un contorno anche appunto di linciaggio mediatico nei confronti della comunità in generale, no?», ammette un tantino intimidito. Delrio prova a spiegare loro che l’equazione calabrese uguale mafioso «aveva creato disagio» ai suoi concittadini. Non solo disagio, però. Le aziende intestate ai “calabresi” erano sistematicamente colpite da interdittive prefettizie che bloccavano la possibilità di partecipare ad appalti pubblici. Interdittive che partivano dopo una veloce occhiata ai cognomi dei titolari delle aziende: se quei cognomi avevano il sapore esotico e criminale della terra di Calabria, allora l’impresa veniva preventivamente bloccata. Nessun processo, nessuna sentenza: bastava (e basta ancora) il sospetto di calabresità per bloccare tutto.
E ai magistrati proprio non torna questa difesa di Delrio nei confronti dei calabresi e proprio non capiscono come mai il sindaco non distingua le imprese autoctone da quelle “straniere”: «Quando parlo di imprese reggiane intendo imprese reggiane a tutti gli effetti, anche quelle fatte da calabresi residenti a Reggio Emilia», insiste il povero Delrio.
A quel punto i magistrati vogliono vederci chiaro, non si rassegnano all’idea che aziende di calabresi possano operare liberamente sul mercato. Così come non si rassegano al fatto che vi siano “infiltrati” in Consiglio comunale: «Senta - insistono i pm - la sua affermazione di poco fa, secondo la quale la comunità calabrese, o cutrese che dir si voglia, ha i suoi rappresentanti nell'Amministrazione Comunale, Consiglio Comunale immagino, ecco che significato ha? Che ci sono dei Consiglieri Comunali calabresi o eletti dalla comunità calabrese?», chiedono all’allora sindaco. Risposta: «Queste persone sono reggiane a tutti gli effetti perché sono a Reggio da trent'anni e fanno professioni varie». E ancora: «Hanno un bacino elettorale normalmente che si individua durante le campagne elettorali che normalmente è fatto da una rete di famiglie, di persone che si conoscono e che in gran parte, diciamo così, anche se non totalmente, sono di origine calabrese». A questo punto il quadro è chiaro. Magistrati, grillini e giornalisti antimafia “contestano” a Delrio una sospetta condiscendenza nei confronti dei calabresi che nella sua città sono addirittura liberi di presentarsi alle elezioni. E se questo non è un reato poco ci manca...