di ALDO VARANO –
UNO. Sull’iniziativa Pd per Platì, provocata dagli articoli del Garantista e rilanciata da Magorno, la contrapposizione è netta: per chi l’avversa, è una cinica operazione mediatica; gli sponsor reagiscono: è un modo per sostenere i diritti. Peccato stia andando così. Si rinuncia ad affrontare il tema vero che (forse) è: come si risolve la questione Platì e, insieme, un problema che scassa molti Comuni della Calabria?
Credo si debba cominciare da una domanda semplice e rimossa: perché a Platì non si candida nessuno? Perché sanno che chiunque si candiderà verrà rimandato a casa grazie a una legge che invece di aiutare gli amministratori per bene li risucchia nel grumo di malaffare e mafia dei loro paesi. Hanno ragione a Platì? Hanno ragione. Perché si può (si deve) combattere la mafia ma la partita è persa contro l’ottusità dello Stato se invece di aiutare “sdirrupa”. Se basta una parentela o un caffè al bar, mentre tra gli avventori c’è un pregiudicato (vedi documenti che sciolgono i Comuni), a Platì, dove tutti (o quasi) sono parenti, non ci sarà persona per bene che tiene: a casa, con ignominia.
DUE. Mi chiedo: facciamo finta che Magorno e chi lo segue riescano a candidarsi veramente e a essere eletti, cosa si sarà risolto? Verrà dimostrato che a Platì si può essere eletti (e non sciolti, forse) soltanto se si è forestieri. Verrà anche eletto un gruppetto di platiesi assieme a carbone, la Bruno Bossio e altri? Ok. Utili, purché tecnicamente subalterni per sancire il principio che chi è nato a Platì è affetto da una minorità che esclude dai diritti degli altri italiani. Con buona pace del vescovo di Locri che in tanta confusione sembra l’unico a non farsi travolgere dall’emotività (o dalla voglia di apparire) e con lucidità chiede che “Platì venga restituita ai platiesi”, in una bella intervista (che consiglio di leggere) firmata da Scalercio.
L’altra ipotesi, onorevole Magorno, è che a Platì finisca come a Roccaforte dove il dottor Giuseppe Mennella (dirigente fiamma tricolore), dato che nessuno si candidava (come a Platì) è sceso in campo ed ha fatto l’operazione che ora il Pd, taglia e incolla, fa a Platì (certo, con l’autorevolezza del partito più forte d’Italia). Mennella e i giornalisti (che si fiondarono lì per raccontare) scoprirono che la maggioranza di Roccaforte non andò a votare (e perché avrebbe dovuto?): elezioni non valide. Roccaforte tornò ai commissari prefettizi e sul paesino si stese il silenzio (questa volta, senza forestieri, qualcuno è sceso in campo e vedremo come finirà). Riassumo: Magorno si candida sindaco, la maggioranza non va a votare, a Platì torna il Commissario, e si stabilirà che Platì è un’anomalia selvaggia irrecuperabile (come Roccaforte). Nessuna delle due possibili ipotesi pare una grande operazione politica e culturale.
TRE. Non si può quindi far niente? Politica impotente per Platì? E’ vero il contrario. Anzi si può fare una cosa seria per tutti i Comuni che si trovano nella condizione di Platì, in crescita fino a trasformare ormai in un’anomalia selvaggia l’intera Calabria. Si può, invece, sbaraccare rapidamente la legge (ancor meglio, onorevole Magorno, per decreto; se fosse possibile) sottraendola a tutti quelli che invece di combattere contro la ‘ndrangheta (che c’è ed è forte anche a Platì) la usano per farsi belli a Roma, dove l’establishment segue distrattamente le cose del Sud, e nel resto del paese. Si può stabilire il principio che anche calabresi e meridionali, come gli italiani, sono responsabili non per affinità parentale ma per quel che fanno individualmente, reati compresi. Serve una legge che aiuti gli amministratori onesti e non che li affossi se ci sono anche i disonesti.
QUATTRO. Un ultimo punto. Il miglior modo per difendere i diritti di tutti, credo, è capire cosa fare quando i diritti diventano abuso e, quindi, negano i diritti degli altri. E’ il problema (tra i pochissimi a percepirlo con acutezza fu Giovanni Falcone, su questo isolato) che si ripropone ogni giorno nella lotta contro le mafie e la loro invasività. Un problema reale, che c’è. Il punto è che la legge attuale che scioglie i Comuni non serve un fico secco per combattere o indebolire la mafia. L’argomento (anche chi scrive c’ha creduto) che intanto lo scioglimento ripulisce un po’ ed è meglio di niente, è miseramente crollato alla luce dei fatti. Sbandierarlo significa allungarle la vita alle mafie. Anni fa nel salone della Confindustria di Reggio, a un convegno (c’erano anche il senatore De Sena, vicepresidente dell’Antimafia, e il procuratore Ottavio Sferlazza), De Sena rivelò uno studio della Commissione secondo cui in nessuno dei 220 enti sciolti (tanti erano allora) era stato risolto il problema delle infiltrazioni malavitose e mafiose. Lo ricordo con precisione, disse proprio così: “In nessuno su 220”.
CINQUE. Intorno alla legge si sono creati interessi materiali importanti e diffusi. Una ragione in più per cancellare la vergogna di una legge che mentre ben si guarda dal colpire la ‘ndrangheta umilia comunità già stracariche di problemi drammatici. Sarebbe bello se Magorno, il Pd e quanti vorranno andassero il 2 giugno a Platì, tutti insieme, per impegnarsi solennemente a toglierla di mezzo.