Una nazione che dal lontano 1951 celebra la sua democrazia su un palcoscenico
Il Festival di Sanremo esiste. Non è questione di discutere se sia bello o brutto. Se sia utile o inutile. Se abbia o non abbia un senso. Sono discorsi di stampo teologico, che fanno a fettine la vera religione contemporanea, quella fondata sullo show, sul business e sull’essere delle star. Sanremo c’è. Come il Natale, con la stessa feroce insistenza, da decenni si ripropone unendo l’Italia in una settimana di vicinanza (o guerriglia civile) molto simile a quelle delle elezioni politiche, dei derby sportivi, e di ogni altro evento che trascenda la monotonia della vita moderna. Contro il logorio, come quel famoso amaro a base di carciofi.
Sanremo unisce. Nell’odio e nell’amore. Nello snobbarlo o nel seguirlo attentamente. Siamo italiani, un paese in qualche modo democratico, dove chi si alza la mattina può tranquillamente dire peste e corna di chi comanda e non gli mozzano le mani. Sanremo è la vera misura del popolo. Ci sarebbero poi dozzine di altri motivi per comprenderne la popolarità. Ma su questo fior di sociologi e di studiosi si sono già espressi.
Complice una fastidiosa influenza e l’effetto debilitante degli antibiotici, anche io quest’anno mi sono sorbito la prima serata del Festival. Delle ultime edizioni non ho guardato neanche la pubblicità, lo confesso e faccio ammenda. Ogni edizione persa mi allontana dall’Italia, anche se sui miei amati treni la ritrovo subito. Ho il dovere, come tutti, di sapere dove vivo. E vivo in una nazione che dal lontano 1951 celebra la sua democrazia su un palcoscenico. Male, intellettualoidi, fate molto male a non vedere Sanremo. Per questo oggi vincono i populismi più estremi. Per questo si affermano le teorie frutto di pancia e di rigurgiti odiosi. Se non conoscete i vostri polli, non saprete mai dove faranno le uova.
Ma passiamo ai voti. Da buon popolano, anche io giudico le canzoni, i politici e gli allenatori di calcio. Non capisco niente di musica, ma, in questo sistema, ho piena facoltà e libertà di giudizio. Perdonatemi anzitempo se urterò la vostra suscettibilità; ecco le PAGELLE dell’ARCIDIAVOLO:
Annalisa: prendete una costardella, datele un bell’abitino e una vocetta da Hobbit, fatele cantare una canzone degna delle lettere anonime, ed ecco il risultato. Voto 0,2.
Ron: la canzone è di Dalla, e si capisce. Sembrava di sentire la sua voce echeggiare tra le note ed i ricordi. Quella di Ron, più addomesticata, non giova alla canzone. Comunque un pezzo di Dalla, quindi un buon pezzo. Lo pronostico tra i primi. Suscita emozione, ma solo perché il buon Lucio ci ha lasciato orfani. Voto 6.
The Colors: Rubata la giacchetta di Adam Ant del 1982, bellocci modello Duran Duran 1983, capelli degli Stray Cats del 1984, un progetto commerciale dalla musicalità pari a zero. Voto: radice quadrata di 0,1.
Max Gazzè: il tema è formidabile, lui un dannato genio, ma scivola sulla voglia di essere normale. Non sembra neanche lui, nessuna impennata di buona musica, nessuna concessione alle sue capacità. Sarebbe bastato cantasse “la Tramontana” come ha fatto nel Dopofestival per capire di che pasta è fatto. Peccato, occasione mancata. Voto 4.
Ornella Vanoni: la sua vecchiaia è una nota di merito, altro che chiacchiere. Ma in un paese cattivo come il nostro una delle voci più importanti della musica italiana è ormai ridotta a macchietta. Incute tristezza profonda, proprio quella da lei celebrata in una magnifica canzone del passato. Supplichiamo il suo ritiro. Meazza se giocasse a calcio oggi farebbe più figura. Ornella, pietà, ritirati. Ti abbiamo amato. Voto: non espresso per rispetto.
Meta-Moro: la coppia è assortita, e, oltre i numerosi giochi di parole, evoca anche l’abbandono totale al canto e alla musica. Peccato che la canzone sia più che altro rumorosa. E, a quanto pare, anche fuori regolamento. Niente da fare, l’impegno (?) non paga. Voto 3,3.
Mario Biondi: una delle voci più belle del panorama italiano casca in pieno nella fossa Sanremese. Non si distacca, non stacca e non stona. Né carne e neanche pesce. Senza mordente. Voto 3.
Fogli-Facchinetti: i due vecchi mestieranti pensano che affidarsi al mestiere possa rendere. E forse hanno ragione. Fatto è che la loro canzone è bella come il suono della carta vetrata sul parquet. Voto 0,01 (periodico).
Lo stato sociale: vera novità di questo festival, qualche bel pezzo alle spalle, intelligenti e ironici se non addirittura geniali a far danzare l’ottuagenaria, la canzoncina è orecchiabile ed anche divertente, che non guasta. Bravi. Voto 6.
Noemi: Perché tutti spaccino questa graziosa signorina per cantante io non l’ho mai capito. Adatta a pubblicità e a sigle di cartoni animati, si adegua a Sanremo con la plasticità delle polpette fatte in casa, senza perdere di stile. Del suo stile. Voto 0,073.
Decibel: la voce di Ruggeri è sempre una gran voce, la riunione con i compagni di scuola funziona e, anche se il punk è morto e sepolto, gli occhiali neri tenuti durante l’esibizione ne ricordano i fasti. Sono un nostalgico, il ritmo è accattivante, il testo pretenzioso, ma va bene così. Voto 5.
Elio e le storie tese: la loro impennata di follia è nella parola “Arrivedorci”. Tra Stanlio e Ollio, tra Elio e quella eterna voglia di prendere e prendersi per il culo, al solito se la cavano. Voto 5.
Caccamo: non so se si trattava di Teo Teocoli, ma la canzone, testo e musica, mi hanno impressionato quanto può impressionare un muro imbiancato a calce. Inesistente. Voto 0.00001.
Red Canziani: dovrebbe presentare delle giustificazioni scritte per avere mandato la controfigura. Patetico come un cocomero a dicembre. Voto -14.
Luca Barbarossa: il musicista ormai è slegato dalle logiche sanremesi, e si vede. Sulle orme di Califano, usa il romanesco come grimaldello per suscitare piccole emozioni. E, in verità, ci riesce. Bravo. Voto 6.
Roy Paci- Diodato: sono davvero loro? Non si sa. L’effetto Sanremo per alcuni è catastrofico. A loro non giova. Però la tromba di Roy resta una delle migliori cose del Festival.E la sua maglietta, con il faccione di Frank Zappa. Si salvano in corner. Voto 5.
Nina Zilli: la voce è sempre quella, lo stile impeccabile, ma il languore del brano è quello del sonnellino pomeridiano. Potrebbe far piangere migliaia di lacrime, ma se ne resta brava bambina educanda nei ranghi sanremesi e al limite provoca dozzine di sbadigli. Peccato. Voto 2.
Renzo Rubino: Purtroppo la sua esibizione è coincisa con i bisogni fisiologici. Che sono andati bene, con tale canzone di sottofondo. Pietre preziose taroccate, niente da fare. Voto -47.
Avitabile- Servillo. Il grandissimo Avitabile si gioca il jolly duettando con Servillo, e alla fine riescono a chiudere bene il festival, mandando tutti a dormire. Un Requiem senza scusanti. Occasione persa anche per loro, troppo pretenziosi. Ma finitela, ragazzi! Voto 3.
Le Vibrazioni: proporre sempre la stessa canzone per tanti Festival non è garanzia di successo, dovrebbero averlo capito. Invece no. Testoni, almeno su quel palcoscenico. Voto 1
Infine i conduttori. Baglioni è stato furbo e onesto allo stesso tempo. Ha scelto i mestieranti della musica al posto di puntare sullo squallore dei talent e sui giovinastri da due lire. Se si fosse lasciato le rughe e non avesse scritto “Strada facendo” avrebbe la stima di tutti. Ma sembra costantemente uscito da un congelatore, e quando vuole essere “rock” cade nella tragedia. Sicuramente un passo avanti rispetto al degrado dei festival organizzati da pupazzi televisivi, comunque. Ragazzo di campagna, voto 6.
Michelle Hunziker: la bambolina della porta accanto, sexy come un caciocavallo, sempre pronta a ridere e per questo apprezzata, certamente grande professionista della TV, trasforma in valletti i partner chiunque essi siano. Precisione svizzera e sagra strapaesana, l’ideale per Sanremo. Voto 6.
Pierfrancesco Favino: sembrava Lucignolo dopo il riformatorio. Molto trattenuto, ha cercato di essere divertente con magri risultati. In compenso ha la verve e la classe per migliorare nelle prossime serate, se smetterà di mordere il freno. Voto 6 di stima.
Infine Fiorello che ormai è a casa sua ovunque. Ha la battuta sempre pronta ed è capace di trasformare il parterre tanto ingessato in un villaggio vacanze. Si capisce che si annoia, ma lo pagano bene. Voto 6. Su Morandi non mi pronuncio. L’eterno ragazzo è sempre allegro, questo basta a renderlo gradevole. Ma la sua interpretazione di Bacalov non è indimenticabile. Voto: non espresso per timore di linciaggi.
Sanremo è Sanremo. D’altronde non potrebbe essere né Parigi e neanche Los Angeles. Se Sanremo fosse Los Angeles, non sarebbe più Sanremo. Con la citazione del grande filosofo Max Catalano chiudo le pagelle, magari poi mi farete sapere chi ha vinto.