di GIUSEPPE TRIPODI -
Corna, pertinenza frontale degli animali ed anche, indirettamente, degli uomini. La cultura popolare addirittura ne fa un livellatore universale (Tru-ttru-trù Truttrutrù / poviri e ricchi non ci su cchiù / cu di soru e cu di frati / simu tutti ncornicchiati, recitava una canzone popolare raccolta da Otello Profazio) e le distingue a secondo del soggetto cornificante: li corna di mamma sunnu pe’ arma, chiddi di soru sunnu pe’ decòru, chiddi di mugghièri sunnu li veri, e cioè le corna di mamma servono per arma, le corna di sorella servono da decoro e quelle della moglie sono le vere .
L’uomo doveva proteggere (anche con il fucile, amaru a chia casa chi non nc’è scupetta, misera quella casa ove non c’è fucile) la sua famiglia da ogni possibile affronto rivolto all’onore di mamma, moglie, sorelle e altre donne del clan. Forse era un uomo arguto ma di poco coraggio colui che, magari per giustificarsi di non aver difeso adeguatamente madre e sorella dai predatori, coniò il proverbio che abbiamo appena riportato.
E la difesa dell’onore si esercita prima di tutto contro i parenti che, avendo accesso alquanto giustificato alla casa, spesso ne approfittano per insidiare l’onore delle donne.
Leonardo Sciascia (A ciascuno il suo, Torino Einaudi, 1984, p. 119) parla in proposito di un’edizione delle lettere di Voltaire alla nipote (ma la parentela era non provata e forse soltanto simulata) con la quale convisse tra Ferney e Ginevra, incorrendo anche nel peccato di lussuria.
“ Queste lettere di Voltaire – scrive Sciascia – uno leggendole pensa a quel nostro proverbio che dice la sconoscenza del parentado che in una certa condizione, in certe circostanze, una parte del nostro corpo spietatamente afferma”.
Non conosciamo con precisione il testo del proverbio siciliano cui Sciascia allude ma sicuramente deve essere il calco di uno calabrese che recita: “Cazzu ntostatu/ non guarda parentatu!”.
E d’altra parte la paremiologia calabra invita a non andar troppo per il sottile: li cugini/ fùttili li primi e, ancora, cugini e cummari / futtili pari; onde il rimedio più opportuno e di cercarsi maritu di ruga e Sangiovanni di Roma, il marito va preso dal vicinato e il compare di Sangiovanni da Roma, così ha poche occasioni di avvicinarsi a casa.
In materia di corna è meglio essere minacciosi e temuti in quanto paura guarda vigna, no’ supàla ( è il timore a guardare la vigna non la siepe, perché questa può essere scavalcata in tanti modi) (alcuni dei proverbi sono stati antologizzati da Saverio Di Bella, EROS E PRIAPO nelle classi subalterne italiane: la Calabria, Soveria Mannelli, Rubettino, 1980, pp.21-25).
E ci sovviene la leggenda del toro dalle corna dorate, Cornadòru appuntodi cui sopravvivono tracce nella cultura popolare di diverse regioni italiane, affidato dal re alle cure di un servitore la cui fedeltà e sincerità aveva retto a tante prove.
Ma la dantesca meretrice che mai dall’ospizio/ di Cesare non tolse gli occhi putti spinse il sovrano ad una ultima insidia per saggiare il cuore del servo: mandò da lui una donna bellissima che prima lo circuì e poi, al momento cruciale, pretese per i suoi favori le corna del toro.
Il servo uccise il toro senza por tempo in mezzo e recò alla donna le corna d’oro con lo stesso animo con cui i soldati avevano recato ad Erodiade la testa del Battista; poi, anche se amareggiato, si godette il premio promesso.
Il giorno dopo il re si presentò al servo e, con a fianco gli inquisitori che avrebbero dovuto torturarlo per fargli confessare il suo tradimento, gli chiese conto di Cornadoru: l’uomo non si perse d’animo e, pronto e sincero come sempre, gli rispose con gli arguti versi che seguono: “Maestà, idda mi risi ed eu nci risi/ idda lu vosi ed eu nci lu misi,/ e Cornadòru pagau li spisi” (Maestà! Lei mi ha riso ed io le ho riso/ lei l’ha voluto ed io non mi sono tirato indietro/ e Cornadoru ha pagato le spese).
Legato alle corna è l’aggettivo curnutu che si declina nelle classiche trasformazioni di grado ( curnutèddhu, curnutni, curnutàzzu), anche superlative, gran curnutu o curnutu bazariòtu, quest’ultimo formato con l’aggiunta dell’aggettivo risultante dalla radice bazar- (mercato) poi è stato aggiunto il suffisso greco otes; il tizio doveva essere un commerciante spregevole sia per il mestiere che per la sua condizione di tradito.
Ci rimane da spiegare perché il dato del tradimento coniugale o parentale è simbolicamente rappresentato dal paio di corna. Ce lo spiega l’umanista ascolano Antonio Bonfinio, 1427-1505, finito alla corte dell’Imperatore Mattia Corvino a divenutone storico ufficiale: … siccome l’anello girando sempre non si parte mai dalla circonferenza, così l’amore coniugale non deve mai riflettere, di maniera tale che se si allontanasse dalla sua periferia, allora l’anello verrebbe a rompersi, ed altra figura non presenterebbe che quella delle corna. (Symposion de virginitate et pudicitia coniugali, citato in Raffaele Corso, La vita sessuale nelle credenze, pratiche e tradizioni popolari, Firenze, Olschki, 2001, pp. 90-91).