Si può capire molto da una relazione amorosa dal modo in cui si va in bagno.
Nonostante gli anni trascorsi, qualcuna preferisce ancora usare il bagno in modo separato, prima l’una poi l’altro: “e mi raccomando, mettiti la musica nelle cuffie sennò senti i rumori che faccio”.
Non era così con Mikasa (nome di fantasia). Ci sta lei che fa la pipì nuda prima di entrare in doccia e poi ci sono io accanto nel lavandino che mi rado la barba. Eppure nonostante la simbiosi, nonostante l’illusione dell’inseparabilità, ci siamo lasciati. Anzi, mi ha lasciato lei e che rimanga agli atti.
Avevamo trascorso due anni magnifici alla residenza universitaria “Paolo Borsellino” (proprio lì dove qualche mese fa una ragazza è stata invece stuprata), praticamente una convivenza su un letto singolo: lei che dorme da me, la spesa insieme, studiare insieme, tutto insieme. Era anche salita in ambulanza con me un giorno che avevo avuto una brutta reazione allergica ed io, col labbro gonfio, le avevo detto: “Hai visto dove ti porto?”.
Ridevamo, ridevamo tantissimo. Come si sia trasformata in una persona fredda nei miei confronti ancora, dopo molti anni, non l’ho mai capito. Le chiesi un ultimo incontro, sotto la galleria a vetri della stazione di Torino Porta Susa. Volevo capire per quale motivo dopo tre anni di relazione mi aveva fatto così male.
Quel giorno pioveva fortissimo e di Mikasa sapevo che aveva già un altro, le foto circolavano su facebook. Mi aveva detto che non mi amava più all’80% ed allora avevo messo io il restante 20% per chiudere la storia.
Fatto sta che Mikasa era lì, da sola e mi stava aspettando: bellissima come sempre, aveva anche riportato la felpa arancione che le avevo prestato. Ricordo solo che aveva un giubbotto di jeans, il resto è offuscato: ci abbracciamo piangendo come due bambini, sapevamo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Mi restituisce la mia felpa che usava quando studiavamo in stanza da soli e che poi puntualmente veniva tolta, mentre qualche povero illuso, che pensava che studiavamo veramente per tutto il tempo, bussava alla porta chiedendo di seno e coseno.
E allora all’improvviso tiro fuori dalla tasca qualcosa: non è un coltello, ma è un semplice pezzo di carta. Sopra avevo scritto il mio giudizio su di lei, diviso su due colonne, prima e dopo Edimburgo, la mia unica tappa in cui la nostra simbiosi si era momentaneamente interrotta per un mio periodo di visita in un gruppo di ricerca durante il dottorato. Faccio fatica a leggerglielo, ho un nodo alla gola e ci salutiamo. Per sempre (anche se lei ogni tanto mi controllava il profilo Linkedin).
La tesi di dottorato segna uno spartiacque nella mia vita: tanta ansia e primo ricovero in psichiatria. Il mio compagno di stanza è un certo Ciro. Ciro Russo, non lo dimenticherò mai. Il 13 Marzo 2019 - ricordo bene quel giorno - balzerà alle cronache per esser evaso dai domiciliari (maltrattamenti alla moglie) ed aver percorso 500 km (la distanza Ercolano-Reggio Calabria) per cercare di uccidere proprio l’ex moglie Maria Antonietta Rositani, dandole fuoco. All’epoca lo ricordo come un omone alto quasi due metri, barba grigia e con sempre indosso il cappuccio della felpa, anche quando dormiva. Mi ricordava un po’ Ciro di Marzio, il personaggio di Gomorra e non mi dava una bella sensazione appunto.
Io verrò dimesso una decina di giorni dopo con la dicitura “evento psicotico” e secondo quanto riportato dai giornali, una perizia psichiatrica della difesa sosterrà che Ciro Russo invece “risulta affetto da disturbo paranoide della personalità, con spiccati tratti narcisistici, con stato di mente tale da compromettere la sua imputabilità al momento dei fatti”. La tesi dell’incapacità di intendere e di volere non convince però i giudici visto che Ciro Russo “ha dimostrato una volontà di perseverare nell’obiettivo programmato, ossia quello di punire la moglie per la fine della loro relazione (..) con un’assenza di qualsivoglia ripensamento critico dei propri atteggiamenti”.
Da quando sono stato dimesso, seguo la vicenda per aggiornamenti e mi verrebbe voglia di abbracciare Maria Antonietta Rositani, che con prontezza quel giorno si salvò e spense le fiamme grazie ad una pozzanghera d’acqua rimasta lì dalla pioggia caduta il giorno prima.
Mille domande affollano la mia mente, da quando ho ricevuto la mia diagnosi: la malattia può trasformarmi, posso fare del male alle persone che ho amato?
Ho letto che anche la difesa di Filippo Turetta, per l’omicidio di Giulia Cecchetin, potrebbe chiedere la perizia psichatrica. Per tutti questi motivi, io stesso mi devo nascondere dietro uno pseudonimo, perché la malattia mentale fa paura a tutti se si continua a dipingerla come qualcosa che trasforma una persona in maniera incontrollabile. Il mio psichiatra dice sempre: “Così come non esiste ancora una medicina per i criminali, non esiste una malattia che ti possa trasformare in criminale. Anche nella patologia più grave come la schizofrenia, dove si sentono le voci, il paziente psichiatrico non farebbe del male ad una mosca se la sua indole è buona. Ci sono persone cattive, aggressive e delinquenti che in aggiunta hanno una patologia psichiatrica, non è la patologia che rende cattivi, aggressivi e delinquenti”.
Purtroppo nella cultura di massa, il paziente psichiatrico viene spesso demonizzato e vive il marchio a fuoco dello squilibrato, mentre si tratta di uno squilibrio chimico all’interno del suo cervello. Oppure, ancora peggio, si cerca di giustificare con uno squilibrio chimico quella che è una lucida follia per alcuni, ma questa è un’altra storia.
Secondo la cronaca locale e nazionale, il paziente psichiatrico classico o uccide o si uccide, non esiste una terza via. In tanti, come noi “pazienti” in tutti i sensi, sono vivi invece e lottano, soffrono e s’offrono, senza fare del male a nessuno. E ripenso al mio film preferito “Daredevil”. E allora vorrei tanto fare come il protagonista, Matt Murdock, che si toglie la maschera e dice a chi lo guarda con timore: “Io sto dalla parte del bene”.
P.S. Per Mikasa, se leggi questo articolo, non preoccuparti per me, sto bene adesso. Tu come stai?