Le regioni, immaginate come soluzione di storici problemi della nazione italiana, rappresentano oggi la più forte incrinatura del sentimento nazionale; sbandierate come una possibile soluzione di secolari squilibri territoriali, hanno invece prodotto una potente accelerazione del divario tra Centro-Nord e Sud; profetizzate come antidoto al notabilato e al centralismo statuale, al contrario hanno dato vita a un nuovo notabilato e a un’originale forma di “centralismo territorializzato”.
Una così radicale eterogenesi dei fini non è riscontrabile in nessun’altra riforma strutturale che ha interessato la vita istituzionale del nostro paese dal secondo dopoguerra in poi. E nonostante i palesi fallimenti che la pandemia del 2020 ha manifestato, impedendo nei fatti una risposta più efficace al covid, e non solo nelle regioni meridionali, si pensa come se niente fosse a dare alle regioni poteri ulteriori che ne cambieranno radicalmente la collocazione tra le istituzioni italiane, creando una poliarchia che spezza l’unitarietà della nazione e dello Stato.
Ma l’Italia non è affatto uno Stato federale, eppure durante tutta la gestione della pandemia ci si è comportati come se lo fosse, affidando alle regioni funzioni mai assegnate nel passato. E se in nessuno Stato federale la sanità è stata devoluta alla competenza locale, perché mai lo si è fatto da noi dove è in vigore solo un regionalismo “rafforzato”? Venti differenti sistemi sanitari (quanti sono le regioni) non migliorano affatto il godimento del diritto costituzionale alla cura al di là del reddito e del luogo dove si risiede. Anzi. Le regioni sono il grande fallimento che il Covid ha evidenziato. Riproporre la centralità delle regioni dopo tutto ciò è davvero sconsiderato.
Ma le Regioni servono davvero? È questa la domanda a cui proviamo di rispondere con il nostro libro. In un paio di decenni, sino agli anni Novanta, le Regioni acquisiscono una serie di poteri gestionali in campi molti delicati nella erogazione dei servizi collettivi, ed in particolare nella sanità. Gli originari compiti di programmazione vocazionali per le Regioni vengono progressivamente messi da parte, per ingaggiare una singolar tenzone con il governo centrale avendo per obiettivo l’allargamento della sfera del potere amministrativo locale.
Sull’istituto regionale non si è mai ragionato seriamente, in termini di assetto istituzionale. La formulazione volutamente ambigua del Costituente, utile all’epoca per raggiungere il compromesso tra le forze politiche, è stata piegata prima da una classe politica regionale che ha tentato di mettere le mani sulla maggior parte possibile dei compiti gestionali e poi dalla Lega che, cavalcando il secessionismo padano, ha prima ottenuto i poteri concorrenti delle regioni, e poi imposto nell’agenda della maggioranza di destra, l’Autonomia differenziata.
Quali sono state le performance delle regioni nelle materie loro assegnate? I risultati sono stati pessimi: nella sanità, nel trasporto locale e nella formazione professionale, vale a dire nelle aree completamente assegnate alla responsabilità delle Regioni, la situazione è molto peggiore rispetto alla precedente gestione statale. In un Paese serio, si istituirebbe una Commissione parlamentare sul funzionamento delle Regioni, che vada a verificare quali sono stati gli effetti per i cittadini derivanti dalla nascita e dallo sviluppo di questo ente.