Salvino Nucera ha scritto due romanzi usciti presso Qualecultura (Vibo Valentia):
CHALÒNERO del 1993 ed I ANEVASI del 2009. Entrambi sono ambientati in un paese
aspromontano, verosimilmente Roghudi da dove l'autore proveniva, ed in entrambi è
rilevante il tema ndranghetologico, stante l'indubbio peso che l'organizzazione
criminale rivestiva in queall'mbiente negli anni (sessanta/settanta del secolo scorso)
in cui si sarebbero svolti i fatti narrati.
CHALÒNERO
Il libro è completamente ambientato nell'area aspromontana, salvo alcuni riferimenti
non molto circostanziati alle città di Reggio Calabria e a Roma.
Preliminarmente occorre chiarire l'«onomastica», nuova e fondamentalmente
allegorica, inventata dallo scrittore ricorrendo a quella greco-classica e producendo
nomi, rectius soprannomi, cosiddetti «parlanti».
Per capire l'onomaturgia dell'autore partiamo dal titolo che coincide col nome del
protagonista, CHALÒNERO appunto.
Per tradurre Chalònero con «sogno svanito» occorre ricorrere alla radice di un verbo
greco classico, χαλ-άω, sciolgo, desisto, donde il greco moderno χαλ-ώ, distruggere,
disfare, donde la radice greco-calabra Chal-donde il significato di «svanito» assunto
dallo scrittore; il participio è molto vicino sia al significato greco-classico di
«sciolto» e sia al greco moderno di «distrutto» e «disfatto»; a questa radice occorre
aggiungere il nome neutro όνειρο-sogno per ottenere il nome composto.
Questo ritengo che sia stato il tragitto semantico compiuto da Salvino per giungere al
significato di Chalònero accolto nella quarta di copertina del romanzo.
Il «sogno» del Chalonero di Salvino, studente a Reggio Calabria, è quello dei suoi
coetanei infraventenni di concludere gli studi, di trovare un lavoro e di condurre
all'altare la sua collega reggina con cui è fidanzato, Glicada-Dolcezza.
Il sogno si interrompe e svanisce quando, durante le vacanze natalizie al paese di
Filosceno (calco del greco classico Φιλόξενοϛ, amante degli ospiti), uccide
Scerocardi (da ξέρη, duro, arido, καρδιά, cuore), ndranghetista che insidiava il padre
Platocalo (il buon-καλόϛ parlatore, da πλατειάζω parlo, dunque il «Facondo») alla
guida la 'ndrangheta locale e che aveva pubblicamente insultato il ragazzo.
Ripensando a quel delitto, mentre spera di rimanere impunito, Chalònero vede
dunque il suo futuro molto nero: «… Quanti bei momenti, quanti sogni! Ora stavano
svanendo, si stavano polverizzando, cocci dispersi dalle intemperie. … La sua vita
gli apparve perduta, buttata al vento.» (p. 45).
Da quel delitto nasce la latitanza di Chalònero, prima ad Acrochorìo presso l'amico
del padre Polimandro (proprietario di molte mandrie) e poi a Roma, in attesa che
arrivasse il giorno del processo.
Intanto Platocalo, negli anni dell'inchiesta per il delitto del figlio e durante la breve
carcerazione seguita alla condanna, aumenta il suo giro di appalti in tutta la provincia
ed anche fuori di essa; insomma si arricchisce cumulando gli utili della sua impresa e
quelli che gli provenivano da attività illecite.
Chalònero, scontata la pena, si inserisce con ulteriore successo nelle attività paterne
salvo, alla fine, subire il peggiore affronto per uomini della sua risma: l'uccisione di
Platocalo; il giovane pian piano si sostituisce in tutto e per tutto nelle attività del
genitore; cerca anche di sostituirlo nella guida dell'onorata società ma senza successo:
«Sognava, un giorno, di occupare , in mezzo agli «amici» il posto di suo padre. …
ancora aspetta, sogna. ….Sogni, sogni che si fanno di notte e si disfanno con il
giorno.» (p. 193)
Al di là della linearità nella trama, l'importanza del libro è il primo esempio di
narrativa in lingua greca di Calabria; l'autore dichiara, nella pagina che precede il
testo, la mancanza di qualsiasi «velleità letteraria» e identifica la fonte nel
« …desiderio dello scrivente di misurarsi con il lessico e la sintassi di una lingua, quella
grecanica, in metastasi avanzata che avrebbe potuto rivelarsi inadeguata per la
realizzazione di un progetto forse troppo pretenzioso.» (p.5)
George Drettas sosteneva che Chalònero «potrebbe benissimo servire per insegnare la
lingua o la letteratura» (p.19) se non fosse sbilanciato, negativamente, dalla
frammentazione linguistica indotta dalla frammentazione ortografica fra le parlate
fondamentali della grecità calabra: quella bovese, quella rogudese e quella
condofurese-gallicianese.
La frammentazione ortografica appesantisce i tentativi di «resurrezione» del greco di
Calabria come lingua parlata; assieme all'esiguità demografica e scolare dei
potenziali interessati (abitanti dei centri aspromontani, decimati dall'emigrazione
prima e dalla precarietà ambientale (stradale, climatica, orografica, idrografica,
etc.etc.); oltre, naturalmente, all'abbandono delle attività agro-pastorali essenziali per
la sussistenza dei borghi montani e oltre, addirittura, al trasferimento coatto degli
abitati diventati completamente pericolanti (Roghudi e Chorìo di Roghudi in primis).
In queste condizioni, stante la conclamata impossibilità di resurrezione «parlata», che
tipo di sopravvivenza può essere ipotizzata per il greco di Calabria: anche qua una
proposta interessante è venuta da Drettas:
« … questa realtà potrebbe uscire dal suo isolamento iscrivendosi in un avvenire di
'lusso linguistico'; quando la varietà letteraria funzionerà in modo simile a quello
delle 'lingue sacre'; … di cui abbiamo parecchi esempi sia nell'Oriente attuale e sia
nell'Europa medievale. Tale sopravvivenza della lingua è importante per la dinamica
culturale. Quindi non deve essere disprezzata.» (p. 18).
In questa situazione, sostiene Drettas, l'apprendimento e la trasmissione di una lingua
come quella che fu dei greci di Calabria è propedeutica alla «libera circolazione dei
beni estetici che producono le 'piccole lingue'» e la scelta tra studiarle e non
studiarle qualifica chi «vuole arricchire o impoverire il proprio patrimonio culturale»
(p. 20).
In che cosa consiste il lusso linguistico e l'arricchimento culturale di cui parla Drettas:
studiare la lingua dei Greci di Calabria può facilitare lo studio e la conoscenza di
un'altra lingua come il greco moderno ed, eventualmente, in una fase più avanzata
dell'apprendimento, le connessioni di questo con il greco classico; ma quanto sopra
può anche aiutare l'appassionato di dialetti a rintracciare le origini di tante parole del
proprio 'piccolo idioma'; l'etnologo a scoprire la cultura delle popolazioni della
montagna calabrese e la loro civiltà materiale, il musicologo a scoprire i tesori
custoditi nei canti d'amore e via di questo passo.
Ora, tornando al romanzo di Salvino, siamo in grado di esemplificare alcuni dei suoi
pregi «pedagogici» inscrivibili nel 'lusso linguistico'; di cui diceva Drettas: alle
pagine 60-63 troviamo elenchi di parole che riguardano diverse realtà con cui si
misurava l'uomo aspromontano: vere e proprie tassonomie botaniche, zoologiche,
ittiche (di fiume), avicole, nonché onomastiche del lavoro pastorale di cui citiamo
alcune sequenze: l'allevamento e la pastorizia: «… distingueva un bue da un toro, il
vitello, la giovenca, la mucca, una capra e una pecora incinta dalle sterili., un agnello,
un capretto, una agnellona, una caprettona; un caprone o un montone da un castrato
… capiva dal pelo, dalle orecchie e dalle corna se un capra era pètrola (col manto
nero a macchie bianche) o rusopètrola (col manto bianco a macchie rosse), o ieràni
(grigia), o minda (senza orecchie) o popazza (senza corna)» (p. 63) (tra parentesi,
anche per le altre citazioni, la traduzione è mia dato che Salvino ha ripetuto la
nomenclatura greca anche nel testo italiano a fronte, GT); «sapeva che cos'erano il
clastri( latte cagliato), il trifti (bastone che rompe la cagliata), sorotìri (?), la caspia
(grande cucchiaio di legno con cui si raccoglie la ricotta che emerge pian paino dal
siero riscaldato), la taddharida (fascella) lacàni (la caldaia riservata alla produzione
del formaggio), l'orò (il siero)il tamìzi (caglio prodotto con lo stomaco dell'agnello da
latte) la paftà (residuo del formaggio in fondo alla caldaia) la protogalia (colostro,
latte prodotto dalle ghiandole mammarie materne nei giorni che seguono il parto;
vero e proprio vaccino, contiene e proteine che rafforzano il sistema immunitario del
neonato e gli fa sviluppare la flora batterica a livello intestinale), il crici (avanzi di
ricotta nel siero caldo), il vrameno (carne bolita), la musulupa (si fa con la tuma del
formaggio, prendendone qualche etto e stringendolo tra le mani giunte fino a dargli la
forma del muso di lupo), la curcudia (polenta)» (p. 63).
Chiudiamo con due curiosità, una onomastica ed una idronomastica.
1. Nell'Inghilterra dei Tudor visse Sir Tomas Chaloner, 1561-1565, figlio di un
merciaio di Londra che studiò a Oxford e Cambridge e fu soldato e
ambasciatore (in Olanda sotto Elisabetta I) e, per l'epoca, storico importante:
autore, tra gli altri studi, di dieci libri «De rep. Anglorum instauranda»,
Londra 1679 (vedasi «Encyclopaedia Britannica, vol. V ad nomen); nessun
genere di legame con il Chalònero di Salvino.
2. Esiste sulla sponda sinistra dell'Amendolea, in territorio di Roccaforte del
Greco e di fronte alla frana Colella (tra le più grandi dEuropa), una delle
cascate più alte della Calabria.
Il nome non ci è sconosciuto: Chalònero.
( https://www.calabriaportal.com/calabriadascoprire/calabria-cascate.html)
Anche le guide turistiche riportano il significato del toponimo: «Sogno svanito»,
identico alla traduzione di Chalònero che troviamo nella quarta di copertina del libro
di Salvino.
La proposta etimologia della parola, forse mutuata da qualche lettore del libro, appare
poco conferente se non assolutamente improbabile.
Forse, conservando il significato della prima parte del nome e sostituendo la seconda
parte (όνερον, sogno, con νερό, acqua), viene fuori una etimologia, acqua svanita, che
ben si accorda con quello che succede nella cascata de qua: l'acqua, abbondante in
autunno e inverno, scompare (svanisce) nei mesi caldi.
Niente male verrebbe a considerare la consonante iniziale non aspirata, e quindi
καλό-νερό = acqua bella, considerando l'effetto estetico che la cascata, al tempo della
portata massima, produce in chi la guarda.