Gli antichi dicevano che «maru è lu nudu//ma cchiù maru è lu sulu».
Il proverbio ruota intorno all'aggettivo calabro-romanzo «maru» che compare tanto
nella prima parte (tema) che nella seconda (rema); esso significa «povero, misero,
disgraziato».
Il senso del proverbio è dunque che il «nudu», cioè chi è tanto povero da non
possedere neanche i vestiti, e senza dubbio un poveraccio; peggio però se la passa chi
vive in condizione di solitudine.
Salvino Nucera non viveva in condizione di indigenza perché era stato insegnante di
scuola media per tutta la vita lavorativa, e quindi da qualche anno era pensionato
continuando ad avere un reddito che in Calabria ha una sua rilevanza.
Però la sua vita, sin dall'infanzia in cui rimase orfano di padre, era intrisa
indubbiamente di solitudine e così pure i suoi versi: «i suoi versi risentono delle
aspre solitudini che costituiscono l'attuale scenario di vita dei superstiti grecanici.»
(D. Minuto, Introduzione a Agapào na graspo, Reggio Calabria, Città del sole
edizioni 1987, p. 5). E Manachìa-Solitudine si intitola una delle poesie della silloge
che propone echi leopardiani e classici ad un tempo: « … la solitudine // guarisce,
ogni tanto // le malattie che l'uomo // porta dentro di sé // come un peccato che ha
commesso // venendo al mondo» (ibidem, 17)
La sua vita sociale, l'interesse per la lingua greco-calabra che era parlata fino ad
alcuni decenni fa nel comune da cui Salvino proveniva (Roghudi), l'amicizia con gli
intellettuali interessati alla grecità calabra, il perfezionamento in Grecia nelle
università di Atene e di Salonicco, la partecipazione a convegni in cui si discuteva
delle lingue minoritarie d'Italia; tutto questo può essere letto come una lotta contro la
solitudine, come una ricerca delle radici alternative al suo essere sradicato;
ricordiamo infatti che il suo paese era stato abbandonato da quando lui era ventenne e
i suoi parenti e coetanei furono costretti ad una diaspora che ancora non si è conclusa.
«Voglio tornare // dove ho lasciato le radici // E non trovarle appassite.» (ib. p. 99).
Salvino infatti è morto non al paese nuovo di Roghudi, rifatto a tappe nell'ultimo
cinquantennio in agro di Melito Porto Salvo, ma nel comune di Gioiosa Jonica dove
abitava da tanti anni, in parallelo con l'insegnamento nel vicino comune di Siderno; è
morto di infarto a mare, mentre prendeva un bagno ed era senza documenti addosso;
e c'è voluto del tempo perché fosse identificato e riconosciuto.
Il 28 ottobre 2023 era morto a Creteil (15 Km da Parigi) George Drettas, un grande
estimatore di Salvino: si erano incontrati anche a Tivoli (1-2 dicembre 2001) ad un
convegno internazionale sulle lingue minoritarie d'Europa (Comune di Tivoli,
assessore alla cultura l'autore di questa nota).
Drettas aveva letto una comunicazione dal titolo VOCE DEL PICCOLO MONDO
Osservazioni sulla storia letteraria della Bovesia ( ora in «Annali del Liceo Classico
A. di Savoia», n. 16-aprile 2003, pp. 9-20) in cui si affermava che il romanzo di
Salvino Chalònero «prodotto con piena maturità formale e presentato in modo
bilingue, potrebbe benissimo servire per insegnare la lingua o la letteratura» (p.19).
Salvino si è spento il 12 luglio scorso; ha lasciato fuori dalla sua vita le esperienze
religiose; ciò era in armonia con l'ateismo che sempre e con coerenza professato,
senza i clamori cui ci hanno abituati tanti intellettuali «à la page», pronti alle piroette
più inaspettate di fronte a qualunque vantaggio, anche di poco conto:
E' il tempo
Di partire, amici.
Niente lacrime.
Non chiedete dove vado:
non lo so.
Non porto niente con me.
Abbandono al tempo
Sogni sparsi.
Solo resta
l'amore per la vita.
Da qualche parte spunterà
una stella luccicante.
(Chimarri, Vibo Valentia, Qualecultura 1999, p. 107)
Abbiamo visionato un video prodotto nell'Access point dell'area grecanica, in
comune di Roghudi, sul saluto laico al feretro di Salvino pronunciato dalle autorità
comunali: ci ha commosso la vista di una figura magra e ieratica seduta davanti al
feretro, appoggiata al bastone ricurvo dei pastori calabresi; in un primo tempo lo
avevamo scambiato per qualche parente ma, ad una successiva scorsa del video, ci
siamo accorti che si trattava del Professor Domenico Minuto, 95 anni, amico e da
lungo tempo mèntore del defunto, nonché preside per alcuni decenni di un istituto
superiore di Reggio Calabria.
Dello stesso professor Minuto conserviamo un'altra immagine molto significativa di
alcuni anni fa mentre partecipava, a Riace, ad una manifestazione in favore di
Mimmo Lucano e contro la sentenza che lo aveva condannato a molti anni di carcere.
Ad avercene molti di maestri informali come Domenico Minuto!
L'immagine di Domenico Minuto davanti al feretro di Salvino ci ha rammemorato
un'altra famosissima: quella di Achille chino su Patroclo ormai morto, opera fittile del
pittore di Kleophrades (Atene, inizio del V secolo avanti Cristo): la stessa tensione, la
stessa posa stilistica, la stessa capacità di evocare un tempo mitico da cui una parte
del mondo ha tratto le proprie radici.
Vale, Salvino caro. Lunga vita a Domenico Minuto!
Il proverbio ruota intorno all'aggettivo calabro-romanzo «maru» che compare tanto
nella prima parte (tema) che nella seconda (rema); esso significa «povero, misero,
disgraziato».
Il senso del proverbio è dunque che il «nudu», cioè chi è tanto povero da non
possedere neanche i vestiti, e senza dubbio un poveraccio; peggio però se la passa chi
vive in condizione di solitudine.
Salvino Nucera non viveva in condizione di indigenza perché era stato insegnante di
scuola media per tutta la vita lavorativa, e quindi da qualche anno era pensionato
continuando ad avere un reddito che in Calabria ha una sua rilevanza.
Però la sua vita, sin dall'infanzia in cui rimase orfano di padre, era intrisa
indubbiamente di solitudine e così pure i suoi versi: «i suoi versi risentono delle
aspre solitudini che costituiscono l'attuale scenario di vita dei superstiti grecanici.»
(D. Minuto, Introduzione a Agapào na graspo, Reggio Calabria, Città del sole
edizioni 1987, p. 5). E Manachìa-Solitudine si intitola una delle poesie della silloge
che propone echi leopardiani e classici ad un tempo: « … la solitudine // guarisce,
ogni tanto // le malattie che l'uomo // porta dentro di sé // come un peccato che ha
commesso // venendo al mondo» (ibidem, 17)
La sua vita sociale, l'interesse per la lingua greco-calabra che era parlata fino ad
alcuni decenni fa nel comune da cui Salvino proveniva (Roghudi), l'amicizia con gli
intellettuali interessati alla grecità calabra, il perfezionamento in Grecia nelle
università di Atene e di Salonicco, la partecipazione a convegni in cui si discuteva
delle lingue minoritarie d'Italia; tutto questo può essere letto come una lotta contro la
solitudine, come una ricerca delle radici alternative al suo essere sradicato;
ricordiamo infatti che il suo paese era stato abbandonato da quando lui era ventenne e
i suoi parenti e coetanei furono costretti ad una diaspora che ancora non si è conclusa.
«Voglio tornare // dove ho lasciato le radici // E non trovarle appassite.» (ib. p. 99).
Salvino infatti è morto non al paese nuovo di Roghudi, rifatto a tappe nell'ultimo
cinquantennio in agro di Melito Porto Salvo, ma nel comune di Gioiosa Jonica dove
abitava da tanti anni, in parallelo con l'insegnamento nel vicino comune di Siderno; è
morto di infarto a mare, mentre prendeva un bagno ed era senza documenti addosso;
e c'è voluto del tempo perché fosse identificato e riconosciuto.
Il 28 ottobre 2023 era morto a Creteil (15 Km da Parigi) George Drettas, un grande
estimatore di Salvino: si erano incontrati anche a Tivoli (1-2 dicembre 2001) ad un
convegno internazionale sulle lingue minoritarie d'Europa (Comune di Tivoli,
assessore alla cultura l'autore di questa nota).
Drettas aveva letto una comunicazione dal titolo VOCE DEL PICCOLO MONDO
Osservazioni sulla storia letteraria della Bovesia ( ora in «Annali del Liceo Classico
A. di Savoia», n. 16-aprile 2003, pp. 9-20) in cui si affermava che il romanzo di
Salvino Chalònero «prodotto con piena maturità formale e presentato in modo
bilingue, potrebbe benissimo servire per insegnare la lingua o la letteratura» (p.19).
Salvino si è spento il 12 luglio scorso; ha lasciato fuori dalla sua vita le esperienze
religiose; ciò era in armonia con l'ateismo che sempre e con coerenza professato,
senza i clamori cui ci hanno abituati tanti intellettuali «à la page», pronti alle piroette
più inaspettate di fronte a qualunque vantaggio, anche di poco conto:
E' il tempo
Di partire, amici.
Niente lacrime.
Non chiedete dove vado:
non lo so.
Non porto niente con me.
Abbandono al tempo
Sogni sparsi.
Solo resta
l'amore per la vita.
Da qualche parte spunterà
una stella luccicante.
(Chimarri, Vibo Valentia, Qualecultura 1999, p. 107)
Abbiamo visionato un video prodotto nell'Access point dell'area grecanica, in
comune di Roghudi, sul saluto laico al feretro di Salvino pronunciato dalle autorità
comunali: ci ha commosso la vista di una figura magra e ieratica seduta davanti al
feretro, appoggiata al bastone ricurvo dei pastori calabresi; in un primo tempo lo
avevamo scambiato per qualche parente ma, ad una successiva scorsa del video, ci
siamo accorti che si trattava del Professor Domenico Minuto, 95 anni, amico e da
lungo tempo mèntore del defunto, nonché preside per alcuni decenni di un istituto
superiore di Reggio Calabria.
Dello stesso professor Minuto conserviamo un'altra immagine molto significativa di
alcuni anni fa mentre partecipava, a Riace, ad una manifestazione in favore di
Mimmo Lucano e contro la sentenza che lo aveva condannato a molti anni di carcere.
Ad avercene molti di maestri informali come Domenico Minuto!
L'immagine di Domenico Minuto davanti al feretro di Salvino ci ha rammemorato
un'altra famosissima: quella di Achille chino su Patroclo ormai morto, opera fittile del
pittore di Kleophrades (Atene, inizio del V secolo avanti Cristo): la stessa tensione, la
stessa posa stilistica, la stessa capacità di evocare un tempo mitico da cui una parte
del mondo ha tratto le proprie radici.
Vale, Salvino caro. Lunga vita a Domenico Minuto!