di MARIA FRANCO
Se osserviamo questa bella regione, riconosciamo in essa una terra sismica non solo dal punto di vista geologico, ma anche da un punto di vista strutturale, comportamentale e sociale; una terra, cioè, dove i problemi si presentano in forme acute e destabilizzanti; una terra dove la disoccupazione è preoccupante, dove una criminalità spesso efferata, ferisce il tessuto sociale, una terra in cui si ha la continua sensazione di essere in emergenza. All'emergenza, voi calabresi avete saputo rispondere con una prontezza e una disponibilità sorprendenti, con una straordinaria capacità di adattamento al disagio. Sono certo che saprete superare le difficoltà di oggi per preparare un futuro migliore. Non cedete mai alla tentazione del pessimismo e del ripiegamento su voi stessi. Fate appello alle risorse della vostra fede e delle vostre capacità umane; sforzatevi di crescere nella capacità di collaborare, di prendersi cura dell'altro e di ogni bene pubblico, custodite l'abito nuziale dell'amore; perseverate nella testimonianza dei valori umani e cristiani così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione. (dall’omelia di Benedetto XVI a Lamezia, 9 ottobre 2011)
Per quanto, almeno in Europa, la secolarizzazione continui ad avanzare, basta che un papa (non “questo”, o “quello”, ma “uno qualsiasi”) si affacci a san Pietro e ci saranno decine di migliaia di persone ad ascoltarlo e dovunque vada troverà folle e sguardi che lo cercano e mani che lo vogliono toccare.
Eppure, non c’è sulla terra un uomo più solo di un papa.
Lui che ha alle spalle una storia bimillenaria, di ombre e grandezze, di brutture e splendori, di degrado e santità. Lui dal quale – si creda o meno, lo si riconosca o no – tutti o quasi, in fondo, si aspettano parole che dicano qualcosa di importante e gesti che incidano nel mondo. Lui che per tanti incarna la voce di Dio, ma per tutti può essere il megafono di ciò che, magmaticamente, si muove nel cuore della storia: per questo, anche chi è ben lontano dal suo credo, finisce col “criticare” l’uno per “aver taciuto” ed esaltare l’altro per “aver detto”.
Mettiamo che – in sintassi: periodo ipotetico dell’irrealtà – un giorno arrivi un papa “rivoluzionario”. Ovvero uno che riuscirà a comunicare il messaggio che gli è proprio – c’è qualcosa di più rivoluzionario che dire agli uomini che la loro piccola e magari oscura e infelice esistenza su questo puntino nello spazio che è la terra ha valore assoluto, eterno? – in modi e forme che squarcino l’ateismo indifferente della modernità: che, insomma, con i suoi gesti, il suo dire, converta al cattolicesimo l’umanità intera.
Rimarrebbe, comunque, sotto il gesto e le parole con cui, l’11 febbraio del 2013, Benedetto XVI, “consapevole della gravità del gesto” si è dimesso da papa.
Il teologo mite, l’intellettuale colto, l’uomo più capace di esprimersi negli scritti che tra la folla – mai amato dai media che gli hanno reso un pessimo servizio – dopo aver lottato come nessun papa prima di lui contro “la sporcizia” (termine suo) che è all’interno della chiesa, dopo aver affrontato “i lupi” dentro le sue stesse stanze, con un filo di voce ma ferma lucidità, ha lasciato ad altri il compito di guidare la Chiesa.
Ci vuole una libertà di spirito sconfinata per un gesto così. Una fede, una speranza, una carità – le tre virtù fondamentali – oltremisura.
Ad un anno di distanza, il cammino che la chiesa – italiana, calabrese – deve compiere per adeguarsi ad un tal segno a che punto è?