L'OPINIONE: Processioni sì, processioni no. Il problema è tutto interno alla Chiesa

L'OPINIONE: Processioni sì, processioni no. Il problema è tutto interno alla Chiesa

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di MARIA FRANCO -

Intervistato da Paola Bottero per la prima serata di “Scilla in passerella”, il giudice Gratteri ha detto che abolire le processioni è “darla vinta agli ‘ndranghetisti”, meglio sarebbe un registro dei portatori delle statue.

Opinione certo autorevole – il noto magistrato è anche consulente della commissione parlamentare antimafia – che mi lascia, però, dubbiosa.

Che una processione si faccia o meno niente dà e niente toglie alla ‘ndrangheta che, essendo, soprattutto, un sistema economico illegale, gradisce certo il riconoscimento sociale della comunità (eventualmente espresso anche con l’inchino del santo di turno) ma risente davvero solo dell’attacco ai “suoi” soldi, dell’affermazione, di contro alla sua, di un’economia “fiorente e legale”.

Ma che una processione si faccia o meno è molto, molto, importante per la Chiesa (in specie per quella meridionale e, ancora di più, per quella calabrese).

Uno. Dal referendum sul divorzio (1974) in poi, è sempre più evidente che anche l’Italia (come l’Europa) è entrata in una fase di “post-cristianesimo”. Ovvero che, mancando sempre di più l’identificazione tra il senso comune e i principi morali della religione, l’adesione alla chiesa è: o) la permanenza residuale di abitudini tradizionali o) una scelta voluta e consapevole (che deve fare i conti col fatto che sempre di meno essere cattolici è di moda, anzi).

Due. La prima fa si che certi riti (per esempio, la processione del patrono) e certi sacramenti (battesimo, prima comunione, matrimonio) vengano vissuti da un numero di persone più ampio di quello che partecipa alla messa (snodo centrale dell’identità cattolica). E che, un buon numero di chi viene battezzato non viene educato da cattolico e un buon numero dei ragazzi della prima comunione non mettano più piede in chiesa fino al momento di sposarsi ecc. ecc. La seconda abbisognerebbe di una vita parrocchiale più ricca di quella esistente, soprattutto su alcuni aspetti per così dire “culturali”: corsi di “catechesi per adulti”, “lectio divina” (la lettura commentata e meditata della Bibbia), dibattiti su ogni aspetto della società contemporanea. Ovvero, una riflessione costante su “cosa vuol dire essere cattolici” e un tentativo di mettere in relazione il Vangelo con le questioni dell’oggi.

Tre. E’ chiaro che la grande forza storica e attuale della Chiesa cattolica è il suo essere non “setta” (dei migliori, dei perfetti), ma casa, potenzialmente, di tutti: e, quindi, di chiunque (qualunque siano i suoi limiti) voglia considerare centrale per la sua esistenza, presente e futura, Gesù Cristo.

Quattro. La crescita dei “cattolici per scelta” e non per (stanca e, spesso, paganeggiante) tradizione sarebbe, però, soprattutto nel Sud dell’Italia, un potente lievito di crescita umana e rafforzerebbe un tessuto sociale che appare, in troppi luoghi e troppe situazioni, ormai consunto e lacerato.

Cinque. Dato per scontato che la fede è fatto intimo e che la vecchietta ‘nta cantunera che dice un rosario appresso all’altro può essere “nel cuore di Dio” più del professore che dimostrasse l’assoluta verità scientifica dei miracoli di Lourdes, i riti identificativi (pubblici) dell’appartenenza religiosa hanno a che vedere con la sensibilità storica.

Sei. Le processioni sono (in gran parte) legate alle feste. Le feste si esprimono con bancarelle, cantanti e fuochi d’artificio. Tutte cose cui il paese o la contrada può, per uso, per divertimento, per noia, partecipare. Ma a quanti si ritengono cattolici tutto ciò ha davvero qualcosa di religioso da dire? E, ancora di più: le processioni, oggi, fanno “catechesi”, ovvero “formano dei credenti o no?