
Il proverbio indica una doppia disgrazia, analogamente a supra na caja / na firita nova o supra a brusciatina l’acqua cadda o, ancora, supra la frevi lu carbunchiu.
La nascita di una bambina è dunque paragonata ad un gravissimo lutto, tanto da far piangere anche le tegole: Quandu nasci na figghia fimmina / ciangiunu puru i ceramiti.
L’alterità viene estesa agli animali di sesso femminile: Mancu i gatti fimmini su boni, alla casa (Spezzano, 586).
Al contrario il figlio maschio va bene, anche se è mezzo scemo: Figghiu masculu e cucuzzuni (ibidem, 584)
Ma un operaio di Mèlito, che aveva avuto cinque malenotatte e nessun cucuzzuni aveva sterminato una cucciolata di gatti maschi perché in quella casa, dato che non erano venuti i figli maschi, di esseri con la cardilla ci doveva essere solo lui.
Sicché la donna, elemento essenziale nella produzione e riproduzione della vita, diventa, nella concezione storica antica e moderna tramandata dalla cosiddetta ‘saggezza popolare’, una realtà irrazionale paurosa come il malessere che si sviluppa nel buio della notte.
La figlia era una piaga per le risorse della famiglia contadina perché occorreva fornirla di dote e ciò presentava enormi difficoltà: ed ecco le mamme che, appena nasceva una figlia, cominciavano a racimolare le risorse: il proverbio infatti non ammetteva ritardi: Figghia ‘n fascia / dota ‘n cascia, ove la cascia era il baule che raccoglieva la provvista di biancheria, realtà tangibile della ‘liberalità familiare’.
Una volta che la disgrazia era avvenuta occorreva liberarsene al più presto: Figghi fimmini e vutti ‘e vinu / dalli caminu (Spezzano, 594) quasi che la figlia femmina, come la botte di vino soggetta a diventare aceto, fosse qualcosa che poteva degenerare da un momento all’altro.
E ci si liberava attraverso il matrimonio (Cu no ndavi omu / no ndavi nomu), meglio se contratto entro i vent’anni, a vinti mina spinti, immaginati come l’apice del ‘furore amoroso’ femminile: A fimmina a vint’anni / o ‘a mariti o ‘a scanni.
La più contenta del fidanzamento, colei che si fa carico dell’irto cammino che porta al matrimonio, era la mamma: la mamma di la zita è tutta preju, / ora chi ndavi lu jènneru novu; è lei la stratega che supplisce con la dolcezza all’acre inesperienza della figlia: si bascia a figghia muccusa (il moccioso o la mocciosa sono, non solo nell’ambiente contadino, sinonimi di immaturità) / p’a mamma murusa.
E il matrimonio deve essere il più sollecito possibile perché il tempo può dar luogo a ripensamenti o a contrasti che portano alle rotture: li cordi longhi si fannu serpi (le corde lunghe diventano serpenti).
E se il matrimonio non viene niente male: la figlia schetta (non sposata) scivolante verso la condizione di zitella era una potenza lavorativa non indifferente, una seconda mamma più giovane che accompagnava nella crescita le nidiate di bambini delle famiglie spesso numerose.
Donde un proverbio terribile e spietato ad un tempo: mbiata ddha porta / d’undi nesci na fimmina schetta morta / cchiù grandi esti e cchiù so mamma si conorta, beta quella porta / da cui esce morta una donna non sposata / più grande essa è e più la mamma si conforta.
Questa la deriva proverbiale sulle donne, dalla culla alla tomba.
Controcorrente una serie di proverbi che arginavano, magari obtorto collo, il disprezzo antifemminile: a) sulla nascita: A casa di galantomini / prima li fìmmini e dopu l’omini, a casa del galantuomo / nasce prima la figlia femmina e poi il maschio: la prospettiva era pretestuosamente ‘aristocratica’ e si sgonfiava quando dopo numerosi parti femminini il maschio non veniva; b) c’era però un proverbio di ripiego: se la casa era stata sfortunata e senza maschio nessun timore: i masculi alla casa li portanu li figghi fimmini; c) sul matrimonio che ritarda: figghiòla sedi sedi / chi la to’ vintura veni, ragazza stai serena che, col tempo, arriverà lo sposo che ti meriti; d) contro l’orgoglio dei produttori di figli maschi: ridi ridi, chi tantu poi / u figghiu masculu ti menti a curuna, nessuno è stato mai incoronato dal figlio maschio; u figghiu masculu esti d’a mugghieri / a figghia fìmmina esti d’a casa.